Andrejs Legzdiņš: “Nella natura ritroviamo l’origine di tutto”

All’età di 95 anni l’architetto lettone-svedese racconta di quando su Domus pubblicava case del futuro ecologiche e tecnologiche e progetti di riuso che rispondevano al mantra “Doing more with less” di Buckminster Fuller.

Andrejs Legzdiņš nasce l’11 gennaio 1936 a Riga, in Lettonia. A causa della seconda occupazione sovietica del suo Paese, a soli otto anni è costretto ad emigrare a Gottland, in Svezia, dove si trasferisce con la famiglia dopo un tormentato viaggio in mare su una barca da pesca sovraccarica di rifugiati. A tredici anni inizia ad appassionarsi all’architettura grazie al padre architetto e, una volta finite le scuole, si iscrive a corso di Art Krafts and Design alla Konstfack University di Stoccolma dove si laurea come architetto d’interni e designer di mobili. Nel 1953, ancora studente, inizia a collaborare come apprendista nello studio di David Helldén, architetto svedese noto soprattutto per la sua partecipazione alla riqualificazione della città di Stoccolma e per aver lavorato con Lallertstedt e Sigurd Lewerentz alla progettazione del nuovo Malmö Music Theatre (1933-44). In studio Andrejs si occupa di realizzare i modelli dove, lavorando il cartoncino, è in grado di dare un senso spaziale al progetto e di immaginare prospettive diverse. Dopo la laurea, continua a lavorare per David Helldén fino al 1974, anno in cui diventa partner di un altro studio fino al 1988. Sempre nel ‘74 inizia a insegnare Interior Architecture and Furniture Design alla Konstfack University (fino al 1993) e nel 1995 diventa professore di design al corso di Mechanical Enginering del Royal Institute of Technology di Stoccolma, dove rimane fino al 2006.

Doing more with less potrebbe essere una buona descrizione del mio lavoro” racconta Andrejs Legzdiņš a Domus citando il leggendario Richard Buckminster Fuller, la cui ideologia è tra i principi fondativi della sua architettura. L’architetto lettone-svedese, che durante gli anni Settanta viene sistematicamente pubblicato su Domus da Lisa Ponti, oggi ritorna a raccontare i suoi progetti a quasi quarant’anni di distanza dalla sua ultima apparizione.

Andrejs Legzdiņš, Casa-studio di Andrejs Legzdiņš, Gottland, Svezia, 1972

Su Domus hai pubblicato progetti di design circolare ante litteram, divani su ruote e prodotti tecnologici ultraleggeri. Ce li racconti?
Ho iniziato a collaborare con la rivista nel 1972, quando sul numero 508 e 509 sono state pubblicate due unità abitative progettate da me. La prima erano gli interni della nostra casa, realizzati con lamiere metalliche ondulate che avevo recuperato dall’allestimento di una mostra. Con quel materiale ho disegnato i divani che si spostavano su ruote, utilizzando anche la gommapiuma e tricot di colori vivaci per ricoprirli, una cabina-guardaroba cilindrica e il piano bar. Ho usato quel materiale perché all’epoca non avevo soldi e in quel periodo dovevamo festeggiare gli 85 anni di mia nonna e ci serviva la casa pronta per la festa. La seconda invece era una casa la cui struttura era interamente realizzata con tubolari di acciaio ricoperti da pannelli sandwich di fibra di vetro con schiuma isolante all’interno. Sempre sul tema dell’abitare, nel 1973 sul numero 522 era stata pubblicata una “casa futura”, ovvero una casa progettata con una visione scenografica, utopica e tecnologica di come sarebbe stata la vita nel 1997 (25 anni dopo).

Nel 1982 Tommasi Trini pubblicava il divano fatto con la lamiera nell’articolo La chiocciola dei sensi pubblicato su Domus 624, una lettura personale del critico degli ultimi trent’anni di interni pubblicati sulla rivista. Mi ero ritrovato tra Elwood, Belgioioso e Colombo ed ero molto felice. Su Domus Lisa Ponti aveva accettato di pubblicare anche alcuni progetti di design industriale, come in Ultralight Ideas pubblicato sul numero 365, dove parlavo di aerei leggeri e di come usare questo concetto a terra e umanizzare la tecnologia e renderla al servizio dell'uomo (e non contro di lui).

Andrejs Legzdiņš, Progetto a Stoccolma, 1973

Che rapporti avevi stretto con Lisa Ponti?
Ho incontrato Lisa Ponti un paio di volte, la prima a Milano nel 1972 durante la mostra “EURODOMUS”. L’azienda era interessata ad allestire il mio progetto di “casa di plastica” (n. 509, 1972) per l’esposizione successiva, ma poi non era stato possibile perché non era in produzione e non avevo nessuno che la sponsorizzasse. Dopodiché ci siamo incontrati nel 1973 al Louvre di Parigi per festeggiare i 45 anni di Domus. In quell’occasione mi aveva presentato Gio Ponti, che sentendo il mio nome si è stranito dicendo che non gli sembrava svedese. Gli spiegai che ero nato in Lettonia e lui mi raccontò di aver lavorato con alcuni architetti lettoni attivi in quegli anni.

Ricordo che quella volta a Parigi io, Lisa Ponti e Peter Cook girammo insieme a visitare le scuole di architettura della città. Ci infastidì il fatto che la rivoluzione del ’68 aveva fatto saltare le lezioni nelle facoltà e gli studenti organizzavano riunioni politiche mostrando poco interesse per l’architettura. La stessa cosa era successa in Svezia: per essere uno studente radicale nelle scuole di design dovevi essere un marxsista-leninista o fare il saluto con il tuo libretto rosso di Mao. Io invece ero coinvolto nell’High-Tech e completamente dedito alla mia ricerca. Nel 1972 non avevamo internet e per me Domus era una piattaforma dove sperimentare, incontrarsi con gli altri professionisti, ricevere informazioni su ciò che stava accadendo in quel periodo nel mondo dell’architettura, del design e dell’arte.

Tutte le cose che ammiriamo e troviamo belle in natura hanno uno scopo e una funzione per la sopravvivenza del pianeta. Rispetto agli oggetti prodotti dall’uomo, la natura ha avuto milioni di anni per sviluppare i suoi “oggetti” alla perfezione.

La ricerca sullo spazio domestico è centrale nel tuo lavoro. Questa casa che citi, la “casa del futuro”, come l’avevi immaginata?
Il progetto l’ho realizzato in collaborazione con il fotografo Hansa Hammarskiöld, eravamo partiti dall’idea di immaginare una casa dopo 25 anni dal 1972, abitata da una giovane famiglia. Al tempo non c’erano i computer e ci siamo inventati questi apparecchi giocosi disposti in una sola stanza di 6x12 metri: la cupola-notte, con le apparecchiature per il condizionamento termico e luminoso, la sfera-bagno trasparente in perspex del diametro 1,80 metri, un tavolo-cucina che penetrava nella serra dove la famiglia coltivava gli ortaggi da mangiare, un cubo-lavello su ruote, uno schermo televisivo sulla parete grande come la parete stessa di 2x3 metri e un terminale elettronico per controllare tutti i dispositivi della casa. Abbiamo pensato e mostrato un nuovo stile di vita e un nuovo modo di dormire, cucinare, fare il bagno, rilassarsi come in una SPA, coltivare verdure. Tutto doveva essere sostenibile, l’acqua utilizzata nel bagno veniva riciclata nella serra e la cupola dove dormire doveva controllare la temperatura dell’intera casa. Infine, il “home terminal” conteneva la tastiera dei comandi per l’impianto audio visivo, per il condizionamento, per l’innaffiamento automatico della serra e così via. Aveva anche un video-telefono ed era collegato a biblioteche, cineteche, musei, centri d’informazione così da poter proiettare sul grande schermo una mostra o qualsiasi altra cosa. Era un apparecchio mobile, su ruote, con capote oscurabile, che permetteva di isolarsi quando si ricevevano “distant calls” con il video-telefono. Il bagno, in particolare, non era soltanto un luogo in cui lavarsi ma un luogo spirituale dove rilassarsi. Per disegnarlo ero partito sempre dalle teorie di Fuller, che, per ridurre il consumo d’acqua nel Dymaxion Bathroom, aveva realizzato una doccia a nebulizzatore.

Andrejs Legzdiņš, Casa del futuro, 1973

Parli di ecologia e sostenibilità in tempi in cui ancora c’era poca attenzione a questi temi, oggi così urgenti…
Tutte le cose che ammiriamo e troviamo belle in natura hanno uno scopo e una funzione per la sopravvivenza del pianeta. Rispetto agli oggetti prodotti dall’uomo, la natura ha avuto milioni di anni per sviluppare i suoi “oggetti” alla perfezione. Quando ho iniziato a disegnare aeroplani ultraleggeri avevo come obbiettivo quello di trovare un design assoluto che risultasse come una copia di un elemento naturale. Ho progettato un oggetto di 70 chili che chiunque si può auto-costruire, con un motore di 10-20 Hp. Anche questo progetto faceva riferimento a Fuller, in particolare ai sistemi strutturali leggeri “Tensegrity” basati esclusivamente sulla tensione e sulla compressione, con un uso minimale di materiali. Nell’articolo pubblicato su Domus 635 del 1973 in cui racconto questi aerei avevo spiegato anche le mie teorie sulla questione ecologica e climatica. Quando guardiamo un aereo da combattimento F16 lo troviamo bello, ma nessuno lo ha progettato per essere bello, è un prodotto di Computer Aided Design (CAD) pensato per distruggere ed uccidere. Le sue forme assomigliano a quelle di uno squalo, un animale prodotto dalla natura che è anche un perfetto assassino. Nella natura ritroviamo l’origine di tutto, studiandola possiamo imparare molto sulla bellezza, ma anche sulle soluzioni tecniche, sull’efficienza e sul principi Doing more with less.

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