Nicolas de Largillière e la grammatica del corpo

Dai ritratti borghesi alla sua opera più meditativa, Studio di Mani, l’artista francese esplora il linguaggio del corpo, conferendo alla pittura la funzione di mostrare, attraverso la luce e la materia, la forma visibile del potere.

Se il personal branding fosse una tela, l’arte di Nicolas de Largillière ne incarnerebbe la perfezione. Era il 10 ottobre del 1656 quando nasceva a Parigi. Un artista destinato a diventare l’interprete per eccellenza di quel capitale sociale emergente che, allora come oggi, necessitava di una messa in scena visiva impeccabile. Ci troviamo nel crocevia storico di una società in tumultuosa ridefinizione, in cui la fastosità barocca cede il passo alla grazia, potentemente autoaffermativa, del nascente Rococò. 

Nicolas de Largillière, Autoritratto di Nicolas de Largillière, 1706, Washington, D. C., USA, National Gallery of Art. Courtesy Wikimedia Commons

Largillière non è il pittore della Corte ufficiale ma, con un’intuizione geniale, si posiziona come il ritrattista d’elezione della ricca borghesia e della nobiltà di toga parigina, sostanzialmente coloro che detenevano il potere economico e giuridico, e che pretendevano una traduzione visiva del loro status senza le rigidità dell’etichetta regale.

Nicolas de Largillière (...) lascia un modello di eleganza narrativa che persiste ancora oggi nell’arte della rappresentazione del potere.

La sua formazione è cosmopolita, peculiarità che ne forgia la maestria: l’infanzia trascorsa ad Anversa gli ha impresso la lezione dei maestri fiamminghi, quel senso della materia pittorica corposa e la sapienza nell’uso del colore come sostanza vibrante. Successivamente, a Londra, la frequentazione come allievo e collaboratore di Sir Peter Lely lo introduce alla dinamica teatrale e alla composizione monumentale della ritrattistica inglese.

Nicolas de Largillière, Portrait de Monsieur de Vermont, circa 1697, Pasadena, Norton Simon Museum. Courtesy Wikimedia Commons

Questo bagaglio, unito a una tecnica impeccabile, lo rende, al suo ritorno a Parigi nel 1682, con l’ammissione all’Académie Royale, una macchina da produzione inarrestabile, con una stima che oscilla tra i 1200 e i 1500 ritratti. La ritrattistica, dunque, lo posiziona nel panorama artistico trasformando le sue opere in vere e proprie mises en scène del rango sociale da lui scelto.

Largillière diventa così un regista dell’immagine: il lusso dei tessuti, la caduta fluente dei panneggi, gli sfondi grandiosi non sono solo un contorno, ma elementi narrativi essenziali che concorrono a definire un’immagine di splendore e affermazione. Egli non descrive l’individuo, ma ne costruisce l’identità sociale, elevandolo a simbolo della società francese.

Nicolas de Largillière, Portrait de Charles le Brun, 1686, Parigi, Francia, Musée du Louvre. Courtesy Wikimedia Commons

C’è un’opera però che differisce da tutte le altre, esaltando l’eleganza del suo pennello, un’opera che enfatizza la sua idea meditativa sulla forma e sulla luce: lo Studio di mani (Études de Mains), del 1715 conservato al Louvre. Il tono narrativo dell’opera è vivace, elegante e caotico al contempo, Largillière conferisce esistenza autonoma all’oggetto sulla tela, separandolo dal mero dato naturalistico. Lo Studio di mani è la narrazione più pura del mestiere, della grammatica profonda di Nicolas de Largillière. Qui, l’artista compie una scelta radicale e disciplinare: spoglia la mano da ogni orpello mondano – anelli, pizzi, maniche – e la offre come puro volume plastico.

Non sono mani/ritratto, ma mani/modello, dipinte in una successione di gesti che ne svelano la struttura anatomica e la potenzialità espressiva. Largillière indaga la superficie corporea con una pennellata energica e materica, arrivando quasi a mapparla come un territorio. La luce viene utilizzata più come un elemento tonale che strettamente cromatico, trasformandosi in una forza che scolpisce i tendini e le falangi, ne evidenzia la tensione.

Nicolas de Largillière, Études de mains, circa 1714, Parigi, Francia, Musée du Louvre. Courtesy Wikimedia Commons

Non c’è la fredda analisi del disegno accademico, come suggerivano i maestri rinascimentali, ma una verità sensibile in cui il chiaroscuro si fa equilibrio proporzionale tra le masse solide che intercettano la luce stessa e ne definisce lo spazio, che per contrasto afferma la presenza del soggetto. Quest’opera è senza dubbio il documento della sua onestà intellettuale e della sua insuperabile maestria tecnica: è l’opera in cui il pittore medita sulla grammatica del corpo, sulla gestualità e il suo significato prima di rivestirlo dei velluti e delle parrucche della moda.

Analizza con misura i gesti, le proporzioni e i significati che poi quelle mani potrebbero assumere nelle sue opere; ogni dettaglio torna al ritratto di cui lui diventa il più grande interprete. Nicolas de Largillière muore a Parigi il 20 marzo 1746, lasciando un modello di eleganza narrativa che persiste ancora oggi nell’arte della rappresentazione del potere.

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