L’Art House di Adrian Paci è una residenza radicata nel territorio che valorizza le energie culturali

L’artista albanese racconta come, trasformando la casa di famiglia in uno spazio d’incontro, pensiero e conoscenza, ha inserito la sua città d’origine, Scutari, nel circuito internazionale dell’arte. 

La casa-atelier di Adrian Paci disegnata da Filippo Taidelli

Art House è una casa nuova, innestata al posto di una vecchia; profondamente radicata, voluta da un artista, Adrian Paci, per il quale il rapporto con il tempo, il luogo e la comunità d’origine sono sempre stati riferimenti attivi, da portare con sé nella vita e nell’arte: non situazioni cui tornare, ma filtri attraverso i quali decodificare il mondo e costruire il futuro. Così, anche questa casa è intesa non come luogo della nostalgia, ma come proiezione, progetto a lungo termine, ad ampio spettro e di reale impatto per il territorio. 

Paci è albanese di nascita e di formazione. Figlio di artista, ha sempre sperimentato l’arte non solo nella dimensione pubblica, ma come forma di vita intima e privata. Dal 1997 vive in Italia; “Forse – dice scherzando – dietro l’idea dell’Art House c’è anche il desiderio più classico dell’emigrato: costruire una casa bellissima nella città d’origine”.

Sta di fatto che del cliché resta poco. Si tratta invece di un’impresa eccezionale per generosità e rigore. Il progetto architettonico, affidato a Filippo Taidelli e recentemente nominato sia per il Mies Van Der Rohe Award sia per l’Aga Khan Award, è chiaro, rigoroso, duttile nelle valenze d’uso: la grande casa, affacciata sul giardino condiviso con l’edificio dirimpetto, è avvolgente abitazione; custode di memoria di un artista, prematuramente scomparso, che vi abitò: Ferdinand Paci, il padre di Adrian.

E ha anche il valore di un’asserzione di principio nei confronti di dinamiche economiche invasive che rischiano di deturpare l’antico tessuto urbano di Scutari. Ma soprattutto, nata dal desiderio di contribuire al fermento culturale del paese e della città, si distingue per un concetto fondante: quello di fare della residenza uno spazio d’incontro, pensiero e conoscenza in cui sia possibile valorizzare le energie dell’arte. Si tratta, quindi, di una casa ricettiva, aperta, in cui, senza che venga meno la dimensione abitativa, s’incontrano e dialogano il mondo dell’arte albanese e i protagonisti più rilevanti dell’ambiente artistico internazionale.

Come si è andato sviluppando il progetto?

Nel tempo. Il pensiero mi ha accompagnato a lungo. Già quando ero bambino, la casa comprendeva una parte abitativa e una dedicata all’arte: lo studio di mio padre. Ricordo un costante bisogno di manutenzione, di riparazioni, di “aggiustamenti”. Ho sempre avvertito il bisogno di una scelta radicale. Inoltre desideravo fortemente che i lavori di mio padre, soprattutto i disegni, le cartelle potessero avere uno spazio congruo e salubre. Alcuni anni fa, è intervenuta un’accelerazione dovuta ai processi immobiliari in corso in quella zona di Scutari: case acquistate e abbattute per costruire palazzi. Mi sono trovato a dover prendere una decisione urgente. Tenevo alla casa di famiglia e sentivo di volerla proteggere. E poi m’infastidiva l’idea di arrendermi passivamente al meccanismo della speculazione edilizia, che non mi piace. Così l’idea ha preso concretezza. Peraltro la disposizione spaziale della casa è un po’ cambiata: il palazzo appena stato costruito di fronte aveva reso il nostro cortile molto esposto.

Abbiamo quindi mantenuto la corte centrale, ma ruotato la casa, che ora dà le spalle alla strada; e pensato a una protezione verso l’esterno, con una parete di pietra di fiume, specifica di qui, sovrastata da un elemento altrettanto tipico, individuato da Taidelli nell’arco dei suoi sopralluoghi: un lungo invaso in cui cresce un gelsomino. All’interno grandi vetrate si aprono sul giardino. Passando all’altro piano di riflessione: ho pensato che non volevo una villa per le vacanze. Non risiedendo a Scutari continuativamente, volevo essere “costretto” a tornare. D’altra parte in Albania, come in Italia, si sente la carenza di situazioni in cui l’arte possa essere vissuta come fare, in una dimensione d’interazione quotidiana, profonda, pur senza perdere spinta pubblica; una dimensione non connessa al mercato né alle istituzioni.

Così è nata l’idea. A questo si aggiungono diverse considerazioni: io sono cresciuto in Albania in un periodo d’isolamento in cui il rapporto tra scena locale ed estera non esisteva. Riuscire a portare qui esperienze internazionali di rilievo mi sembrava un modo per riempire un vuoto che avevo sentito, rispondendo alle esigenze che mi hanno accompagnato nella crescita, oltre che a quelle del presente. Un’altra è che l’Albania era centralizzata durante il Comunismo, e lo è rimasta: tutto avviene a Tirana. Ma anche altre città, come Scutari, hanno un passato e un presente da avvalorare. Infine, mi volevo sottrarre all’immagine albanese del kitsch, dovuto a quell’architettura spontanea stravagante e bizzarra, quell’esplosione fantasiosa e un po’ grottesca del dopo-Comunismo.

E per quanto riguarda l’attività dell’Art House?

Cerchiamo di mantenere un giusto rapporto tra continuità e improvvisazione. Si procede nel rispetto di una struttura di base, ma anche con libertà, per progressivi “aggiustamenti”, evitando di ripeterci. Credo che sia importante modificare continuamente il modo di relazione con lo spazio, con gli altri. Gli ospiti dei numerosi incontri che abbiamo organizzato dall’apertura nel 2015 sono state figure attive a diverso titolo nel mondo dell’arte: critici, curatori, direttori di musei; da Marta Gili, a Adam Budak, a Charles Esche; artisti come Anri Sala e Yael Bartana. Ma non solo; per esempio è arrivato Vinicio Capossela. Naturalmente il rapporto con l’Italia è stretto.

Ogni talk è l’occasione d’incontri tra gli ospiti e gli artisti albanesi, soprattutto delle giovani generazioni; di cui cerchiamo anche di favorire l’accesso sulla scena internazionale. E poi ci sono collaborazioni con realtà consolidate, come il festival “Lo Schermo dell’Arte”, o il Van Abbemuseum. Ma una delle iniziative seminali è senz’altro l’Art House School, con partecipazione di 10 artisti. Anche in questo caso, le modalità variano leggermente di volta in volta. E da quest’anno attiveremo la residenza: i primi artisti ospiti sono il duo Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita.

Dunque c’è una casa bellissima, con una lunga storia; sei stanze e molti altri spazi; un giardino con due pioppi e l’area riservata alle opere di tuo padre. C’è un’attività ricchissima, grazie alla quale Scutari è entrata a far parte del circuito internazionale dell’arte. E dentro questa cornice c’è ancora la possibilità di continuare a sperimentare. Qualcosa di cui senti la mancanza? 

Uno studio, per poter anche preservare momenti per me stesso! 

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