Sandy Skoglund: il mio lavoro è essere lo specchio

In occasione della personale a Torino, abbiamo intervistato l’artista americana che, insieme a Jeff Wall e Cindy Sherman, ha dato origine alla staged photography.

Giorgio Andreotta Calò CITTÀDIMILANO, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca. Foto: Agostino Osio

Tra lavori inediti, composti dopo aver approfondito ricerche negli archivi Pirelli, e sculture come le Meduse, come le Clessidre e le Pinna Nobilis, Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979; vive e lavora tra Italia e Olanda) torna in Italia, per una mostra personale in un’istituzione, dopo il lavoro affrontato per la 57ma Biennale di Venezia (2017). In occasione di CittàdiMilano, abbiamo intervistato l’artista sul significato della creazione di un paesaggio estetico in cui quel che era sommerso diventa visibile e quel che si presenta davanti agli occhi, scompare sistematicamente alla vista. Tra piani orizzontali e viste prospettiche oblique.
Durante gli ultimi mesi di ricerca, qual é stato il dato su Milano che hai scoperto e di cui non eri a conoscenza?
 Io, fin dal principio, ero intenzionato a partire dalla storia di Pirelli, dalle lavorazioni che portano avanti e dal processo che poi conduce alla realizzazione finale di manufatti industriali. L’archivio mi ha fatto comprendere che cosa produca effettivamente Pirelli e, andando a ritroso nel tempo, abbiamo recuperato persino una porzione di cavo sottomarino che era la prima tipologia di prodotti ingegnerizzata e realizzata dall’azienda. In mostra, Senza Titolo (Cavi), 2019 è stato posto volutamente in evidenza, all’inizio del percorso, e la sua sezione orizzontale ricorda il sistema radiale del fascio del pneumatico. Un intreccio di fibre metalliche rivestite dalla gomma che le conferisce struttura. Se puoi si guarda il cavo rappresenta la stessa torsione. L’antesignano tecnico-produttivo degli pneumatici era stato il cavo telegrafico. L’azienda si era distinta sul mercato per la posa dei cavi sottomarini, punto di forza che ci ha permesso di arrivare alla vicenda del piroscafo, il CittàdiMilano, scoprendo che si era inabissato. Preludio per un’idea di discesa verso un luogo che non è il territorio fisico, urbano della città, ma è un luogo che potrebbe essere ovunque, anche se permane un legame molto forte con Venezia. Questa è sempre stata una modalità d’indagine che ho portato avanti, mappando uno spazio o una realtà, riferendola a luoghi che mi sono familiari, per poi caratterizzarli e connotarli rispetto a quella che è la mia esperienza personale e il mio modo di conoscere una realtà Milano, che  è ritratta nell’enorme stampa fotografica (Città di Milano, 2019) diventa poi, capovolta, una sorta di marina, con un orizzonte di un mare ribaltato al contrari. Sono tati luoghi che si intersecano.

L'arcipelago di opere dal passato che stai rievocando avrà un'impronta prevalentemente scultorea. Secondo quali modalità l'utilizzo tridimensionale dello spazio fissa il tempo? Il primo approccio di questa mostra si è rivelato come un legame rivolto a rinsaldare Hangar Bicocca con la sua storia e in parte con la struttura dello spazio espositivo.
L'obiettivo era capire come era connotato il vuoto, cercando di interpretare una geometria e una predisposizione degli spazi che erano stati dati, soprattutto guardandoli sgombri, all’inizio di tutto. Lo spazio dello Shed, dal mio punto di vista tende a comprimere quel che gli si pone in mezzo. Noi non dovremmo concepirlo così com’è, ma dovremmo guardarlo dall’esterno, a partire dall’ingresso, per realizzare che quando un edificio viene modificato, anche solamente nella destinazione d’uso, ne viene stravolta la percezione iniziale. Quindi questo spazio, che, fin da principio, avrebbe dovuto essere un unico vano, così ampio, lungo e basso, oggi, parzialmente parcellizzato, ha cambiato aspetto, e si è ristretto molto, facendo sì che tutto emergesse molto di più, in primo piano. Abbiamo deciso di consegnare al visitatore, come primo punto di vista, l’angolo estremo dello Shed, per individuare una diagonale. L’intenzione è lasciare percepire una profondità, facendo scansionare un tempo di movimento, lineare, che attraversa i lavori. Dunque, a partire dalla disposizione fisica degli oggetti nello spazio, viene percepito un tempo di attraversamento, un tragitto che non è più perpendicolare ai due piani delle pareti, ma è obliquo, trasversale,  e permette di leggere tutto l’ambiente come una circolarità. Entrando nei lavori e a mano a mano che passi nell’impianto dei Carotaggi (2014-2017) ci si rende cono che si è sospinti da un movimento continuo. Per questo motivo abbiamo lasciato due panche sulle quali sederi: noi lo abbiamo girato continuamente, non tanto per assestare un lavoro rispetto all’altro, ma perché avevamo la necessità di creare momenti di vuoto e di sospensione che diventano porzioni di tempo fisiche. Se ci si avvicina a Volver si trova un’area volutamente non riempita, perché da una densità si passa ad una pausa. Seguendo questo concetto, abbiamo anche ribaltato l’immagine di Milano, perché idealmente pensavamo che potesse delineare una continuità con i carotaggi. Ma abbiamo capito che il fatto di non individuare perfettamente fin dall’inizio, il senso dell’immagine rappresentata, avrebbe fermato la ricerca visiva dello spettatore, dilatando il tempo, come nella stratificazione verticale dei Carotaggi, posizionati sul piano orizzontale e dunque la forma scultorea dialoga con la sua reale conformazione temporale. Mentre le Clessidre (M, N, O, B, U, AB), 2010-2013, segnano l’esatto opposto, sull’asse della verticalità. Le opere sono rimandi esatti di come il tempo si possa manifestare.

Giorgio Andreotta Calò CITTÀDIMILANO, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca. Foto: Agostino Osio
Giorgio Andreotta Calò, Scolpire il Tempo, 2010, Hangar Bicocca, 2019

Quanto CittàdiMilano sarà un percorso di emersione e quanto di immersione, relativamente ad un arco temporale di 10 anni del tuo lavoro? La vista tra esterno e interno dello Shed è interrotta dalle pareti che proseguono l’enorme schermo sul quale è proiettato Senza Titolo (Jona), 2019. Abbiamo dato vita ad una sorta di percorso iniziatico, un momento di decompressione, attraverso un corridoio oscuro, che permette di accedere alla mostra. E’ una modalità di ingresso ma è anche una richiesta di attenzione, di preparazione ai dettagli che si perderebbero qualora si accelerasse il percorso di visita. Il filmato del relitto, posto all’ingresso, invita lo spettatore a una sorta di ideale discesa, un momento nel quale si entra in un abisso e si scende. Ovviamente il video rappresenta una trasposizione metaforica di quel che si ritrova in Hangar Bicocca, presenze fisiche, tangibili e oggettuali. Questa separazione creata è netta all’inizio, quando si accede alla mostra, poi però il filmato si ritrova in continuazione, fra gli elementi presenti nello spazio. Inoltre, a mano a mano che si abbassa la luce del sole, l’immagine in movimento diventa più presente rispetto al resto. Infatti la scansione temporale del giorno e della notte diventa un elemento che abbiamo lasciato si manifestasse con naturalezza. Non abbiamo voluto che lo spazio venisse congelato da una luce fissa, naturale o artificiale che fosse. Sarebbe bastato chiudere i lucernai, ad esempio, per creare una luce stabile, ma la dimensione del tempo naturale è presente nei lavori e deve essere mantenuta come legame con l’esterno. In ogni caso, c’è sempre un momento di ingresso, di accesso allo spazio, è deve essere mediato.

I miei lavori sono allestiti senza seguire una scansione temporale lineare, per data di produzione, tanto è vero che le diapositive di Volver (2008) sono state poste vicine alla stampa di CittàdiMilano, realizzata un mese fa, creando una sorta di circuito continuo. Abbiamo solo cercato di riscontrare dialoghi ipertestuali tra i lavori. In verità, ogni volta che ti muovi all’interno della mostra, il punto di vista viene modificato, creando diversi assi temporali. Amo pensare allo Shed come ad una sorta di scrivania, sulla quale si trovano cartelle nelle quali ci si deve immergere, bisogna lasciarsi sommergere dalle informazioni, creando collegamenti tra i singoli lavori, semplicemente navigando.

Giorgio Andreotta Calò Senza titolo (Jona), 2019 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019. Commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca
Giorgio Andreotta Calò, Senza titolo (Jona), 2019, Commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca

La definizione di ambientale applicata a questo percorso monografico, quali accezioni assume? In questo caso ambientale significa mettersi in relazione con il luogo e trovare analogie, corrispondenze. Ieri notte, ad esempio, riguardando Senza Titolo (Jona) e i sommozzatori, ho trovato naturale collegare parte delle immagini del relitto con le strutture, i tralicci dello Shed. In quel momento i carotaggi posti a terra mi sono sembrati  una continuazione protesica del filmato. Come se in alcuni momenti l’ambiente diventasse un corpo unico, nel quale si trovano a fondere i lavori, diventando parte di un ecosistema più grande. L’ambiente qui non è solo un paesaggio, un luogo fisico, ma rappresenta un insieme di condizioni nelle quali si può sviluppare un sistema, oppure una forma.
Come vengono trasmessi dati e informazioni attraverso i lavori in mostra, dal cavo ai carotaggi? 
I dati sono frammenti, segmenti incompleti. Per noi, ricevere, assimilare un messaggio significa avere degli imput, dei segnali brevi. Ovviamente il completamento è a carico della nostra presenza nello spazio. La connessione che si può costruire tra quello che comunica una forma o un elemento, la storia che contiene, e quello che può esprimere il carotaggio, così come tutta l’installazione del produttivo, si rivela nel momento di stacco tra l’uno e l’altro, un piccolo salto nel vuoto rappresentato dal nostro pensiero che li ricollega. Noi colmiamo gli spazi vuoti attraverso una personale lettura di quel che ci circonda.

A  proposito dei materiali e delle superfici che riconfigurano lo Shed, vediamo bronzo, legno, ma anche il caranto, in un transito ideale tra Milano e Venezia. Quali sono le qualità, le risposte diverse che questi tre materiali conferiscono ai diversi lavori presenti? Il passaggio tra un materiale e un altro implica l’avvio di un processo di trasformazione. E comprendere come da un elemento diventi imprescindibile passare ad un altro, diventa un momento di transito da osservare pienamente. La fascinazione per il caranto è nata per una mia decisione di analisi: volevo scoprire se quella tipologia di argilla avrebbe potuto essere cotta, diventando terracotta. All’inizio volevo costruire oggetti in muratura, con il caranto. Anche se le implicazioni dell’ordine alchemico, riguardanti la muratura, mi avevano coinvolto completamente e su u altro fronte. Inoltre, l’oggetto-colonna, la sua portanza, mi interessava perché stavo cercando di ricostruirne una in muratura. Stavo lavorando per la Biennale nel 2011 e il caranto, difficile da reperire, è cominciato a diventare, nella mia mente, la colonna portante di Venezia, lo strato solido sulla quale la città si fonda. Estrarolo in forma di cilindri, significa, a tutti gli effetti, portarlo ad assomigliare ad una colonna, mentre cuocerlo rappresenta un momento successivo, per fissarlo, dato che si sgretola facilmente.

Comunque, il passaggio tra i vari materiali non è mai netto e definitivo, ma a volte alcune superfici coesistono tra di loro, tra organico e inorganico, come quando le conchiglie vengono messe assieme alla parte in bronzo (Pinna Nobilis, 2016-2018), oppure quando  alcune sculture in osso diventano legno o ancora bronzo. Quindi si tratta di un passaggio continuo, fluido e metamorfico: il lavoro si evolve senza fine, come viene raccontato, ad esempio, nel filmato con i minatori In Girum Imus Nocte (2014). Il cambiamento di stato è un momento catalizzatore di un’azione: la barca che brucia mentre i minatori stanno camminando è simbolo del viaggio compiuto tra chi scava nelle viscere della terra e i pescatori. Un elemento d’acqua che torna ad essere elemento di terra. Quando i materiali cambiano senza raggiungere uno stadio stabile, nel momento successivo sono già tramutati. In questo senso la mostra crea un movimento vorticoso, non potendo concedere al visitatore, nemmeno volendolo, di fermarsi.

Titolo mostra:
Giorgio Andreotta Calò. CittàdiMilano
Date di apertura:
Dal 14 febbraio al 21 luglio 2019
A cura di:
Roberta Tenconi
Sede:
Hangar Bicocca
Indirizzo:
Via Chiese 2, 20100 Milano

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