Elaine Cameron-Weir, alchimista futurista

Intervista all’artista canadese, che in occasione della sua prima importante personale in un’istituzione tedesca, presenta otto sculture in acciaio, pelle e seta.

Elaine Cameron-Weir

Elaine Cameron-Weir (Alberta, 1985, vive e lavora a New York) è un’artista che lavora con la tecnica dell’assemblaggio e utilizza materiali sia artificiali sia organici, spesso attratta dalle loro proprietà funzionali o potenziali. La rielaborazione dei dettagli e l’inserimento di oggetti in scenari sperimentali più ampi sono azioni al centro del suo lavoro, una messa a fuoco sui temi del mutamento e della rigenerazione. “Exhibit from a dripping personal collection”, presso il Dortmunder Kunstverein, è la prima mostra personale in un’istituzione tedesca, dove l’artista ha presentato una nuova serie di otto sculture realizzate in acciaio, pelle e seta. 

La presentazione della mostra parla di te come di una “alchimista futurista”: che cosa pensi di questa definizione?
Non sono una Futurista con la F maiuscola (e comunque sono sicura che nel loro manifesto i Futuristi discriminassero le donne) e la parola “alchimia” fa un po’ pensare a me come a una fattucchiera. Ma direi che, se si riferisce a una persona interessata al futuro e al cambiamento delle situazioni, sono proprio io.

Nella tua produzione c’è una commistione di riferimenti simbolici che in certo qual modo mi ricorda la medicina quattrocentesca. Questa tua mostra personale conferma la linea estetica che stai approfondendo negli ultimi anni?
Non va in una direzione completamente diversa, anzi è molto simile, per cui qualcuno, visitandola, potrebbe dire che è diversa per via del rapporto rettilineo/parete di queste opere, oppure della loro serialità. Ma per me è la continuazione delle cose che ho sempre concepito, forse con certi aspetti che qui sono più espliciti: per esempio nei pezzi vengono usate delle sezioni di paracadute della seconda guerra mondiale. M’ispiro spesso all’equipaggiamento militare, che però tendenzialmente è fatto di oggetti magari più oscuri, meno evidentemente identificabili come “militari” rispetto a questi paracadute, che recano la scritta US ARMY stampata dove sono stati dismessi.

Le tue sculture basate sull’assemblage, che uniscono sempre materiali organici e artificiali in contrasto, implicano una riflessione sulla fabbricazione e sull’atteggiamento degli esseri umani verso il progetto naturale. Dipende da qualche specifica caratteristica della tua formazione?
Credo che il mio interesse stia nell’dea di funzionalità a scala umana, oltre che in una specie di necessità funzionale che è una provvisorietà, e il modo in cui essa si collega alla volontà della natura di sopravvivere, ovvero di “funzionare”. Tutte le attrezzature e gli oggetti che mi piace usare sono oggetti modulari progettati per un uso specifico, e quest’uso non è nascosto. Non so se ci sia qualcosa di speciale nella mia formazione che mi spinge in questa direzione, ma da bambina le gabbie mi hanno sempre affascinato, e uno dei miei giocattoli preferiti era il trasportino metallico del mio gatto, che serviva per portarlo dal veterinario. Un oggetto che mi piaceva perché aveva in sé un’analoga, ovvia funzionalità, ridotto alle dimensioni del gatto. Naturalmente il mio lavoro è qualcosa di personale e di psicologico, e dipende assolutamente da quel che penso, ma non cerco di raccontarlo in senso biografico.

I tuoi lavori spesso includono aspetti da laboratorio; è una soluzione allestitiva per mantenere aperto il processo di trasformazione oppure per rappresentarlo in maniera più esplicita?
Considero importanti la potenzialità e il cambiamento di stato (qui c’è il lato alchemico). Trovo che buona parte degli attrezzi da laboratorio siano fatti per studiare e controllare il cambiamento di stato, e perciò li uso. Mi piace che le cose si scaldino o che facciano quel che voglio io senza che mi sembri un trucco di magia, voglio che l’intenzione della funzionalità originale sia visibile: i cavi, gli interruttori, le pinze, i bulloni e via dicendo.

Hai detto che non cerchi di raccontare in senso biografico, ma questa attenzione alla potenzialità implica un certo tipo di narrazione. Le tue sculture, per la maggior parte, sembrano oggetti costruiti per scopi sconosciuti, predisposti ad azioni che restano incompiute.
La narrazione m’interessa moltissimo, perché la narrazione implica un certo tipo di trascorrere del tempo e di rapporto con il cambiamento. Ma tendo a non indagare la mia biografia personale svelandola nel mio lavoro attraverso una narrazione. Non è un giudizio sul modo “giusto” di fare arte, è solo che sono più portata a fare così.

Hai mai pensato d’includere nelle tue opere elementi performativi?
In una certa misura, in alcune delle mie opere, degli elementi performativi ci sono, dato che devono essere gestite da una persona. Sto pensando in particolare ai pezzi che comprendono un profumo ottenuto bruciando o riscaldando dell’incenso. Queste opere comprendono una fiamma libera oppure un riscaldatore da laboratorio, e vanno controllate e rifornite nel corso dell’esposizione. È una specie di fatto occasionale, e forse consiste nell’assenza dei gestori e nell’evidenza dei loro gesti, più che nel vederli maneggiare l’opera. O ancora, forse, nella potenzialità di assistere o pensare in qualche modo a questo rapporto.

A proposito di percezione, quanto è importante il rapporto con il pubblico nell’ideazione delle tue opere?
Io voglio comunicare con il pubblico, il che non vuol dire che teorizzi strategicamente quel che faccio in modo da avere questa o quella reazione. Lo tengo semplicemente sempre presente in generale, il pubblico trova una cosa interessante se anche chi realizza quella cosa trova quel che fanno loro non solo semplicemente interessante, ma necessario o importante per loro. È un punto di vista ottimista, credo.

Titolo mostra:
Exhibit from a personal dripping collection
Date di apertura:
26 maggio – 22 luglio 2018
Sede:
Dortmunder Kunstverein
Indirizzo:
Park der Partnerstädte 2, Dortmund

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