Lazzaro Felice: il mondo primordiale e postmoderno del film premiato a Cannes

Prosegue il percorso di de-civilizzazione nel terzo film di Alice Rohrwacher, dopo Corpo Celeste e Le Meraviglie.

Lzzaro felice, Alice Rohrwacher, 2018

Inizia con una serenata notturna l’affresco rurale di Lazzaro Felice, che ci proietta in un archetipico mondo centroitaliano fatto di campagne, fosse e scarpate, dove le c sono g e i costumi sembrano usciti dal Decamerone. È un universo idilliaco solo in apparenza però, perché lì dove vive Lazzaro, giovane buono dai lineamenti etruschi, vige ancora la mezzadria: i contadini sono proprietà della Marchesa De Luna, che li impiega nella sua piantagione di tabacco in cambio di poveri alloggi. Ma c’è un mondo ancora più misero in agguato, quello dell’urbanizzazione forzata, dove i braccianti vengono de-portati quando la vita moderna irrompe nelle forme di un elicottero e di un gendarme che metterà fine alla realtà feudale della Marchesa.

È questo che racconta Alice Rohrwacher: un percorso di finta civilizzazione, l’inurbamento come abbrutimento, l’alienazione e la miseria che avanzano con l’allontanamento dalla natura. E lo fa attraverso gli occhi sgranati del suo protagonista, giovane come quelli dei suoi due precedenti film, tutti legati da un evidente filo rosso: Corpo Celeste sulla scoperta della religione in un paesino del sud e Le Meraviglie, sulla corruzione della dura ma sana vita di campagna ad opera della civiltà rappresentata da un programma televisivo.

Quando Lazzaro deve abbandonare le sue terre per raggiungere i compaesani e l’amico Tancredi, affronta un viaggio attraverso le tappe di una civiltà che è inciviltà: gente che si svende pur di lavorare, strade solcate da camion, distributori di benzina, televisioni che trasmettono programmi di cucina, i casermoni delle periferie. È qui che Lazzaro ritrova la sua gente, che ora veste in un modo che possiamo riconoscere come “nostro” e normale, ma che vive di espedienti, si nutre di patatine e ha ormai dimenticato il nome di erbe e verdure. Viene in mente Ozu, l’autore giapponese che ha rappresentato l’alienazione dell’inurbamento nel Giappone degli anni cinquanta in film come Viaggio a Tokyo: il treno come simbolo di connessione alla modernità e insieme disconnessione da una vita precedente più semplice, essenziale.

La locandina di Lazzaro felice
La locandina di Lazzaro felice

La Rohrwacher parte da uno spunto storico reale, l’abolizione della mezzadria in Italia all’inizio degli anni Ottanta (evocati con le pettinature a schiaffo dei ricchi e con il walkman) per delineare una libera fiaba, in cui la fantasia è adottata, come nel recente The Shape of Water di Benicio Del Toro, per parlare in modo lieve di temi pesanti. La regista delinea così con grande libertà un mondo reale che però non esiste, che va dagli ambienti rurali, quasi primordiali, della prima metà del film, con i suoi casolari scrostati ma ricchi di fascino e la villa liberty neopompeiana della Marchesa, al postmoderno lievemente cyber punk del mondo urbano fatto di palazzi fatiscenti e case ricavate da cisterne abbandonate ai limiti della città. È particolare che questo mondo, a suo modo inventato, sia rappresentato attraverso uno stile autoriale che deve molto al documentario.

Una scena del film Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, 2018
Una scena del film Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, 2018

Alice Rohrwacher infatti inizia la sua attività di regista girando documentari prendendo molto da Ermanno Olmi (Il Posto, L’albero degli Zoccoli), altro autore che avendo mosso i primi passi proprio nei documentari ha raccontato il cambiamento di un’Italia che da agricola diventava industriale e urbana. Il luogo, in Rohrwacher come in Olmi, è centrale, protagonista e insieme motore delle storie. La macchina da presa coglie in modo non lezioso dettagli architettonici sui generis, come la strana abitazione della ragazzina di Corpo Celeste o la casa cisterna della nuova vita di Lazzaro. Poca musica se non diegetica (ascoltata o suonata dai protagonisti), macchina da presa ferma o a mano a rubare le immagini degli attori che sono spesso non attori, anziani dal sapore caravaggesco o giovani dalla pelle candida.

Un cinema fieramente europeo e italiano, molto autoriale, che in questo segna la sua distanza dal cinema indie americano, che anche se piccolo è grande, anche se povero è ricco, e cerca sempre di essere pop come nell’acclamato Lady Bird di Greta Gerwig. Una distanza di stile, di luoghi, di visione, che oggi fa bene perché è giusto e sano riscontrare diversità e varietà anche in mondo globalizzato, perché non si verifichino i destini dell’Inviolata, la tenuta della Marchesa, che viene violata eccome, spazzata via per sempre in quel caso anche a ragione, e quello di Lazzaro, annientato in un finale che fa pensare alle Baccanti di Euripide e alla Punizione di Marsia di Tiziano.

Titolo film:
Lazzaro felice
Regia:
Alice Rohrwacher
Distribuzione:
01 Distribution
Casa di produzione:
Tempesta, Rai Cinema
Anno:
2018
Sceneggiatura:
Alice Rohrwacher
Fotografia:
Hélène Louvart
Premi:
Prix du scénario, Cannes 2018

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