Titolo e comunicazione della stagione estiva del Palais de Tokyo ammiccano in modo plurale e leggermente comico alla Nouvelle Vague.
Nouvelles Vagues
Al Palais de Tokyo di Parigi, 20 mostre collettive rovesciano sul visitatore un informe tsunami curatoriale: una scelta che genera confusione e distanza dall’idea di contemporaneo.
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- Ivo Bonacorsi
- 08 agosto 2013
- Parigi
Quella stagione gloriosa fu un episodio planetario d’impegno nel rinnovo delle grammatiche dell’immagine che, purtroppo, non fa rima con questa mega mostra “tappa-buchi”.
“È un periodo morto nel quale non succede granché”, lo dice addirittura Jean de Loisy, che del luogo è presidente. Dunque, quale migliore escamotage se non attingere al bacino in crescita esponenziale dei curatori? A disposizione di ciascun progetto ci sono 20.000 euro e anche questa volta si è finito per riempire i tre livelli del Palais de Tokyo. Il risultato è una ventina di mostre collettive con nomi, titoli e concetti leggermente sbiaditi: “Il metodo Jakobsen”, “File not found”, “La fine della notte (parte I)”, “Champs Elysée”, “The floating admiral”, “Un escalier d’eau…”.
Potrebbero essere – a scelta – i capitoli di un libro, i titoli di una playlist o anche soltanto la traccia visibile del disastro narcisistico che ci circonda. La stessa origine patologica dei proliferanti “ego-museum” privati, di cui qui si mimano le forme nella versione di servizio pubblico. Una scelta perfetta per rigenerare confusione e distanza dall’idea di contemporaneo, rovesciando sul visitatore un informe tsunami curatoriale.
Dopo il disastro dell’intero concept, occorrerà comunque occuparsi di questi splendidi relitti. Ci sono bellissime opere in mostra: tanti straordinari giovani, a fianco di vecchi artisti con le loro intuizioni che sicuramente sarebbero arrivate al pubblico con tempi, logiche e criteri differenti da quelli della selezione di questo progetto.
Certo vedere qualche lavoro di Amirita Sher-Gil, scoprire la maquette di Adolf Loos per la casa di Josephine Baker o vedere un bel video di Otolith Group fa sempre piacere. Purtroppo, però, anche per i curatori indipendenti esiste un gotha curatoriale planetario, che suggerisce mode e detta regole e liturgie. Si sono infrante però la meraviglia e l’ideologia degli anni Settanta, nati dalla semplicità del fare arte. Ora si fanno avanti i nuovi numi tutelari Hans Ulrich Obrist, il nostro Massimilano Gioni, Jens Hoffmans che hanno supervisionato la splendida offerta parigina di moduli espositivi.
Certo “L’antigrazioso”, mostra curata da Luca lo Pinto è un piccolo gioiello. È un’oasi di freschezza e intelligenza, ma credo che al pubblico le ceramiche di Cameron Jamie piacerebbero lo stesso senza la superba mediazione della sequenza di foto della Portinaia di Medardo Rosso. È in questa risibile forzatura dell’accostamento, tra le forme di curatela contemporanea e la nouvelle vague cinematografica che risiede l’equivoco. Tupac Shakur non sta ai Roxy Music della mostra “Trasformer”, nella coscienza della disciplina. Nella logica dell’intrattenimento sì.
Il curatore contemporaneo è un poco come Orlan quando, in nome dell’autentico, querela Lady Gaga e risulta disarmante. Meglio, allora, la mossa di Francesco Vezzoli che fa suonare pianoforti personalizzati da Damien Hirst all’opening gala del Moca. Nella comunicazione ufficiale di questa mostra, i curatori sono presentati come i veri eroi e non solo di questo show. Figure che si muovono al di fuori dell’accademia, che sfuggono alle regole del mercato e ai codici dell’istituzione.
Un nuovo ristorante di livello ha aperto al Palais de Tokyo, le vetrate portano la firma di Cattelan e Toilet Paper almeno per qualche mese e l’opera più bella esposta fuori da ogni sguardo curatoriale è quella di Estefanía Peñafiel Loaiza Dal 2009, raccoglie – come fosse un médicinale – il residuo delle gomme da cancellare che utilizza nel suo lavoro. Non è certo Rauschenberg che cancella De Koonig, ma gli artisti restano i più bravi a creare antidoti a uso e consumo dei curatori.