Gli architetti dopo l’architettura: come cambia la disciplina

Un libro curato da Harriett Harriss, Rory Hyde e Roberta Marcaccio mette a sistema gli autori contemporanei che stanno allargando l’orizzonte d’azione dell’architettura.

“L’Architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”: ogni progettista conoscerà questa definizione di Le Corbusier, tra i padri del pensiero moderno in architettura e paradigma dell’architetto-eroe che vuole cambiare il mondo. Le Corbusier è l’esempio per eccellenza del pensatore solitario, che da solo risponde a questioni che hanno poi impatto sull’intera collettività.

Questa figura negli ultimi decenni si è poi evoluta (o è degenerata) in quella dell’archistar, progettista-globetrotter, famoso come una rockstar, capace di impreziosire ogni metropoli globale con edifici dalle forme esagerate o raffinate, lavorando spesso per i colossi del capitale globale o per clienti poco scrupolosi.

Ma oltre a questa narrativa – che purtroppo oggi è dominante – negli ultimi anni si sta diffondendo un nuovo orizzonte di alternative, che guardano all’architettura come pratica collettiva o come strumento di analisi di realtà complesse, in risposta alle sempre mutevoli e sfaccettate esigenze del contemporaneo. Queste pratiche sono al centro di Architects After Architecture, una pubblicazione curata da Harriett Harriss, Rory Hyde e Roberta Marcaccio, pubblicata dalla casa editrice londinese Routledge alla fine del 2020.

La copertina del libro Architects After Architecture, pubblicato da Routledge alla fine del 2020

“La pratica architettonica convenzionale – con la sua cultura masochista, l’aspettativa di lunghe ore di lavoro, la flessibilità limitata, il vasto divario retributivo tra i generi e il culto del ‘maestro’ – si è dimostrata ostinatamente resistente all’adattamento,” affermano i tre curatori nell’introduzione del libro.

A questa prospettiva umana, che riguarda la vita quotidiana degli architetti, va aggiunta la consapevolezza crescente che troppo spesso l’architettura è usata come strumento di una trasformazione urbana che nasce per il semplice profitto degli investitori, ed è concausa di crescenti ineguaglianze sociali.

In questa situazione, sono sempre più numerosi i progettisti, gli studi e i collettivi che provano a distanziarsi da questa visione. Se prese separatamente, queste pratiche possono sembrare casi isolati. Ma se contestualizzate e raggruppate, esse possono mostrare come negli ultimi anni – in special modo dopo la crisi finanziaria del 2008 – si vada “verso una versione dell’architettura che è plurale e multiforme, con percorsi che rivendicano una più ampia rilevanza nella società.”

La pratica architettonica convenzionale – con la sua cultura masochista, l’aspettativa di lunghe ore di lavoro, la flessibilità limitata, il vasto divario retributivo tra i generi e il culto del ‘maestro’ – si è dimostrata ostinatamente resistente all’adattamento

Architects After Architecture è una raccolta di testimonianze e di conversazioni con alcuni tra gli architetti contemporanei che stanno ridefinendo la disciplina. Queste figure sono sinteticamente raggruppate in due categorie: “Plus”, ovvero quelli che uniscono la pratica tradizionale, cioè la costruzione di edifici, ad azioni sperimentali, alla ricerca o all’attivismo civile; “Beyond” comprende invece tutti coloro che hanno abbandonato i sentieri classici dell’architettura per lavorare in ambiti che toccano tangenzialmente quelli della progettazione.

Nella prima troviamo ad esempio Assemble, un ormai celebre collettivo interdisciplinare, i cui 22 membri ibridano i diversi campi dell’arte, del design e dell’architettura per sviluppare progetti ad alto impatto sociale. Tra chi ha superato confini dell’architettura c’è senza dubbio il laboratorio di ricerca Forensic Architecture, che mette la disciplina a servizio della giustizia e della verità, con un’inconsueta combinazione di architettura, arti visuali e giornalismo investigativo. Le loro analisi dello spazio permettono di studiare conflitti e crimini da una prospettiva inedita.

Oltre a questi, troviamo tanti architetti, studi, ricercatori e attivisti di varie generazioni: dagli Ant Farm a Rotor, da Jack Self a Studio Folder, da Peggy Deamer a Malkit Shoshan.

Oltre alla capacità di mettere insieme alcune delle critical spatial practice più rilevanti del contemporaneo, il libro riesce ad esplorare questo contesto da vari punti di vista, grazie anche ai racconti autobiografici degli architetti coinvolti, che rivelano anche alcuni fondamentali “dietro le quinte” del loro lavoro. Si evita il rischio di ricadere nella autocelebrazione acritica delle nuove forme di agency relative all’architettura.

Infine, è interessante notare alcuni parallelismi con il recente libro Contro L’Oggetto di Emanuele Quinz, che unisce tre generazioni di progettisti in grado di interpretare il design in modo diverso da quello tradizionale, che con il tempo è degenerato in un loop di produzione-distribuzione-consumo-obsolescenza.

Visti insieme, i due libri rendono evidente quanto sia fondamentale un cambiamento radicale dell’intero panorama progettuale. Harriss, Hyde e Marcaccio ci offrono una prospettiva incoraggiante (citando il designer canadese Bruce Mau): "Se pensassimo all'architettura come metodologia – indipendente dal risultato – vedremmo che l'architettura ha una profonda cultura di sintesi influenzata da valori civici. Che è la capacità più preziosa di questo momento storico".

Immagine di apertura: VIsta dell'installazione del padiglione Cosmo di Andrés Jaque/Office for Political Innovation, progetto vincitore del Young Architects Program 2015, al MoMA PS1. Foto Miguel de Guzman

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