Le comunità resilienti come antidoto alla crisi ambientale

Alessandro Melis, che curerà il Padiglione Italia alla prossima Biennale Architettura, racconta come dovremmo abitare il pianeta, anche nel riflesso della pandemia.

 La prossima Biennale Architettura, aprirà al pubblico (forse) il prossimo 22 maggio. Un anno dopo rispetto alle previsioni, con una pandemia che ancora imperversa. “Comunità Resilienti” – così si chiamerà il Padiglione Italia – farà risorgere l’allestimento di Milovan Farronato per la Biennale Arte 2019, mentre il catalogo avrà impatto zero. E questi sono già due indizi. “Il programma del Padiglione, se guardo alla nostra prima conferenza stampa, non è cambiato molto. Al centro c’è la crisi ambientale, di cui abbiamo voluto considerare soprattutto i due aspetti più rilevanti: la questione sociale e le conseguenze sulla salute”, spiega Alessandro Melis, che curerà il padiglione. “Questo per dire, ad esempio, che sezioni della nostra mostra, come ‘Architecture as a caregiver’, hanno sempre fatto parte del nostro panorama, anche prima del Covid-19. Il titolo ‘Comunità resilienti’, poi, è stato scelto perché ben rappresenta un approccio: nel nostro Padiglione emergeranno sicuramente i nomi di alcuni architetti, ma l’attenzione sarà posta sulle idee di collettività, risultato di collaborazioni, che sono di respiro più strategico che puntuale”.


Come nasce questo approccio?

La practice-based research – ovvero la pratica dell’architettura come ricerca – è stata centrale. Questo deriva dal fatto che lavoro in un contesto anglosassone che, diversamente dell’Italia, tende a non distinguere nettamente professione e ricerca. Oggi l’architetto si trova di fronte all’evidenza che l’industria delle costruzioni è fra le principali cause della crisi ambientale. Ciò rende necessario che i progettisti si confrontino con un panorama più complesso, che risponda sì agli stimoli del committente, ma che prenda anche in carico la risoluzione di questo tema. Per questo motivo è necessario interpretare l’architettura come una pratica di ricerca, la cui qualità va quantificata anche rispetto alla vastità del suo impatto.

Con la pandemia si è molto parlato della dicotomia città-borgo, o centro-periferia. Dove si trovano le tue “comunità resilienti”?
Partiamo dal presupposto che l'Italia ha una configurazione urbanistica molto diversa rispetto ad altre nazioni. Nel senso che credo che il modello italiano abbia fatto più di altri un passo avanti per superare proprio questa dicotomia. Mi fa sorridere se penso che, in Italia, chi abita a Pontedera pensa che Peccioli sia un’area interna della Toscana, mentre in realtà sono due paesi confinanti. Quella distanza, in Nuova Zelanda – dove ho vissuto quattro anni – equivale alla distanza tra due quartieri diversi di Auckland. Ciò che vorrei dire con questo Padiglione, è che dovremmo lasciare da parte l'idea che la dimensione di un insediamento sia più rilevante rispetto alle sue unità relazionali, che si chiamano appunto comunità.

Quando si può dire che un insediamento non funziona?
La connessione fra l’ambiente fisico e la struttura sociale è un fatto politico. Ciò che è stato costruito in modo monofunzionale e specialistico – corrispondendo al paradigma urbano dello scorso secolo – è destinato a non essere resiliente. In Nordafrica, soprattutto in Algeria, si sostiene che, perché una comunità funzioni, la configurazione fisica della comunità debba corrispondere a quella sociale. Dagli studi che ho condotto su Algeri, insieme a Yazid Khemri, è emerso che, nella Medina e nella parte colonizzata dai francesi, la compattezza abbia prodotto un certo tipo di struttura per la comunità. Questa condizione, assieme fisica e sociale, è assimilabile a quella dei borghi esterni: il concetto in Algeria si sintetizza con la parola El Houma. Al contrario, nei pezzi di città realizzati con il criterio dello zoning – lo stesso con cui in Europa si è costruito nel Dopoguerra – la relazione fra ambiente fisico e struttura sociale risulta spezzato.

Come si concilia questo pensiero con il fatto che la densità abitativa degli insediamenti è diventato un fulcro del dibattito attorno al Covid-19?
Ipotizziamo che, per creare maggiore distanziamento, ci trasferiamo tutti nei borghi, oppure che facciamo case più grandi, o strade più ampie, come è stato proposto. La realtà è che, così facendo, non stiamo guardando alla questione globale, ovvero che la causa delle pandemie che hanno colpito il mondo in questi ultimi decenni è la pressione che abbiamo generato sull’ambiente con i nostri insediamenti. Pensare che la costruzione di città più ampie sia la soluzione al problema contingente del Covid, ci condurrà a problemi ancora maggiori nel futuro. Come progettisti, dobbiamo quindi ritrovare una visione globale, poiché l'obiettivo strategico dell'architettura è esattamente l'opposto, in questo momento: cioè di realizzare città più compatte in cui ogni struttura deve assolvere a più funzioni. Nel 2020 è successa un’altra cosa di importanza cardinale, ovvero che la massa artificiale ha superato la biomassa del pianeta. Non possiamo più abdicare alla responsabilità che abbiamo, è solo nostro il compito di ripensare l’urbanistica in chiave globale, cambiando paradigma: l’architetto deve essere prima di tutto un costruttore di principi.

Alessandro Melis è curatore del Padiglione Italia 2021 alla Biennale Architettura di Venezia (ex 2020), architetto co-fondatore di Heliopolis 21 Architetti Associati e docente all’Università di Portsmouth.

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