Quasi 70 anni dopo che John Turner ha intrapreso uno dei primi e più radicali processi di critica attiva della città moderna e di “descolarizzazione e rieducazione dell'architetto” attraverso le sue azioni progettuali e i suoi studi sugli insediamenti informali, i processi di urban design ribelle che sfidano il lascito capitalistico dell'era della megalopoli sono ancora i propulsori di nuove visioni per il city-making che sappiano partire dalla scala della comunità.
Lungo gli ultimi 10 anni, PICO Colectivo (fondato da Marcos Coronel e Stevenson Piña) si è sviluppato come una giovane realtà ibrida, coinvolta in azioni di progetto spaziale sia pubblico sia privato negli insediamenti informali dell'America Latina.
La loro realizzazione più rinomata ha guadagnato l'attenzione globale comparendo tra i vincitori del concorso Young Architects in Latin America nel 2018, dopo tre anni di sviluppo graduale: il Community Facilities System nel barrio di Los Frailes de Catia (Caracas) è stato sviluppato da PICO assieme ad un team allargato, chiamato per l'occasione Aparatos Contingentes.
Lavorando sulla legittimazione degli insediamenti informali, stabilendo un confine abitabile con il circostante Waraira Repano National Park, un processo di ristrutturazione ha investito il barrio dal 2015, promuovendo un empowerment della comunità attraverso protocolli di coesistenza sociale e ambientale attivati da strumenti spaziali. Il progetto ha creato tre infrastrutture multiuso anticonvenzionali, capaci di rompere diversi stereotipi tipologici: una Reduced Sport Court che sfida i modelli competitivi e performativi spopolanti nella città convenzionale, e dimensionata sartorialmente per il suo irregolare contesto; un Open Parliament, un circuito di terrazze condivise o tribune di riunione in una porzione di terreno non occupata, 750 metri quadrati nel cuore del barrio , tenuti liberi dagli stessi abitanti per oltre 20 anni; una Path Square che sfrutta un muro di contenimento costruito in permacultura per creare una scuola-laboratorio che forma alla gestione di ecosistemi vicinali, e alla protezione del Parco Nazionale.
Ora che il progetto di Catia sta completando il suo secondo anno di vita, abbiamo scambiato qualche parola con Marcos Coronel riguardo al ruolo di simili azioni nella contemporaneità, è allo stato corrente delle pratiche ribelli e partecipate di costruzione della città, dopo anni di ricerca globale sugli insediamenti informali.
In questi tempi di epidemia globale di coronavirus, la vita nei barrios sarà messa radicalmente alla prova. Che effetti sta avendo quest’emergenza sulle comunità? Potete vedere delle risposte che un’azione progettuale potrebbe dare ad un cambiamento simile?
La pandemia minaccia di danneggiare radicalmente le relazioni e i legami sociali costruitisi; allo stesso tempo però dà un’opportunità per ricostruire le nostre città. Qualcosa che non passa per un trattamento superficiale, che ricicli modelli esistenti e ci riporti allo stesso punto in cui eravamo: deve essere un cambiamento radicale, rivolto in avanti, verso nuove proposte fisiche, enitità abitabili, territori nuovi con spazi sicuri e flessibili che sappiano anticipare, o quanto meno affrontare e superare condizioni aggressive e dannose.
Le comunità popolari sono spazi vulnerabili, ma allo stesso tempo sono spazi di coesione e solidarietà. Più nello specifico, le comunità come favelas e barrios, che erano l’anticorpo sviluppato dalla società per immunizzarsi dall’esclusione sociale e dalla depredazione del territorio, possono essere trasformate in quel codice genetico che serve alle città per trovare e far diffondere un rimedio rivolto a comunità future e forme urbane inclusive, in equilibrio oltretutto con l’ambiente naturale che le accoglie.
Per cominciare in leggerezza: il panorama delle azioni progettuali per l'informale è vasto, come definireste una specificità del vostro metodo?
Lavorare nel barrio significa pianificare una forma di città costruita, ma pur sempre non formale. Si tratta di stabilire un paradigma differente. Spazi nuovi, autocostruiti sovversivamente a partire dalle necessità e dall'intelligenza popolari, sono governati da un sistema di relazioni flessibili, costituiscono scenari propizi al ripensamento del modello di città e di processo costruttivo a partire da un set di circostanze inedito.
La trasformazione può scaturire direttamente dalle forze delle comunità: nelle città venezuelane, le comunità possono esprimersi come attori principali, da che hanno la possibilità di incontrarsi in consigli di comunità, attraverso i quali presentare le loro iniziative e richieste alle istituzioni pubbliche.
Farsi propulsori di una simile trasformazione non ha niente a che vedere con un'idea artistica o semplicemente creativa dell'architetto. Ha piuttosto a che vedere con una ridefinizione del tempo dell'architettura, un tempo che non è quello del progetto della costruzione, ma qualcosa di più ampio, che comincia proprio quando quelle fasi si sono concluse.
Intendete dire che avete un qualche controllo sul dopo della costruzione?
Vediamo la nostra professione come supporto ad un processo, va al di là del semplice fornire infrastrutture; vogliamo lavorare più sulla potenziale culturale e sulle relazioni sociali all'interno delle comunità, come materiali da costruzione.
Davvero si può ridefinire la figura contemporanea dell’architetto con azioni simili?
Negli anni Settanta, la figura dell'architetto che si rivolgeva alle comunità era ancora quella di uno specialista che portava soluzioni dell'altro. Ma comunità come quelle con cui abbiamo lavorato hanno storie particolari. Hanno cominciato a crescere fin dagli anni ’50, quando la città formale aveva preso a trasformarsi in una macchina capace solo di vendere la sua anima all’artificialità. Durante gli anni ‘80, l'apoteosi del real estate, i barrios di Caracas che si opponevano al controllo e alla deportazione dei loro abitanti, hanno teso ad autoproteggersi, chiudendosi agli estranei. Le figure convenzionali di architetto erano anche in qualche modo considerate come appartenenti al mondo del “formale”.
Il primo passo nel provare a sviluppare un paradigma differente per la figura dell'architetto sta nel capire che noi non siamo solo architetti, ma cittadini.
Ci sono tante maniere diverse oggi per lavorare nelle città, e gli architetti ancora agiscono in un campo limitato. Pochi di loro sono connessi alla questione della cittadinanza: sono quelli che realizzano piazze, edilizia sociale. Ancora meno tra loro lavorano sul costruire cittadinanza, progettando centri comunitari, case, terreni di gioco e così via. Gli interventi utili ed efficaci sono quelli che riescono a unire sapere tecnico, esperienza popolare, processi decisionali e tutte le possibili forze coinvolte in una reale trasformazione di un ambiente come quello del barrio.
È abbastanza comune che le discussioni comincino dai risultati più recenti trascurando “come si sia arrivati lì”. Bene: come siete arrivati a questo?
Il mio primo progetto è del 2010. La comunità in cui vivevo — nella città venezuelana di Barquisimeto — voleva sviluppare dei piccoli progetti di housing diffuso; io ero già un membro attivo della comunità, così mi sono fatto avanti. Ho deciso di essere nella comunità invece di aspettare che arrivasse qualche progetto, e così ho progettato e costruito una piccola casa vicino alla mia.
Il nostro collettivo, poi, è un ufficio in costante mutamento di forma e di dimensioni . Oggi siamo in otto , ma spesso ci siamo allargati a professionalità diverse e a studenti, spesso abbiamo lavorato in gruppi ampi come gli Aparatos Contingentes creati per il progetto Catia. Nel 2013 abbiamo deciso di intraprendere un viaggio attraverso il Sud America dove abbiamo sviluppato le nostre prime azioni in varie comunità di Paesi differenti.
Siamo tornati in Venezuela nel 2014 e da quell'anno siamo stati incaricati di alcune azioni di progetto nelle comunità urbane di Caracas. Per questo tipo di azioni l'America Latina è una specie di terra vergine dove un approccio quasi “animale” al plasmare spazio e relazioni può guidare le collettività attraverso esperienze radicali di trasformazione. Ci chiediamo spesso “Com'è possibile che facciamo ciò che stiamo facendo?”, e pensiamo che la risposta stia nella complessità dei modelli politici in cui ci troviamo ad operare, e di quelli che proviamo a proporre: siamo immersi in un contesto incredibilmente sperimentale.
Il progetto nell'informale è ormai una specie di tradizione, sia teorica sia professionale. Come vi posizionate rispetto alla critica della città moderna che ha caratterizzato questa tradizione fino dai lavori di John Turner?
Queste esperienze sono un'opportunità per la società di formare e organizzare una struttura del potere diversa, non tradizionale, guidata autonomamente dal popolo, dalle stesse comunità: il potere popolare come componente fondamentale dell'organizzazione politica. Quello che proviamo a fare è più promuovere una visione differente sulle possibilità di organizzazione sociale.
Questa “tradizione” nondimeno ha generato certe ricorrenze visuali — uno stile, potremmo dire — e i vostri progetti hanno dei caratteri formali che si notano. Si può parlare di qualche principio formale o estetico nel vostro lavoro?
Il nostro processo è fatto soprattutto di problem solving, perché lavoriamo immersi in una rete di richieste molteplici e immediate, riceviamo gli stimoli di un contesto non formale, costruiamo su terreni residuali: ogni volta devi sviluppare un metodo locale, con le capacità e l'intelligenza locali. Ogni volta che comincia un progetto, quindi, non sappiamo che aspetto avrà alla fine. I progetti per Catia ad esempio li possiamo definire “accident design”.
Quindi come definireste la vostra posizione rispetto a un tema ampiamente dibattuto come la partecipazione nel progetto e nella costruzione?
A volte certi progetti vengono direttamente sviluppati sul posto, perché l'interazione con la comunità diventa intensissima e imprescindibile. Ogni comunità però ha le sue richieste specifiche e le sue metodologie di decisione; il nostro approccio resta comunque il sottrarci ai processi progettuali convenzionali, immergendoci nelle reti relazionali delle comunità stesse. Bisogna anche considerare che normalmente le persone non ci chiedono di progettare loro i loro edifici: vogliono darci le idee, le vogliono vedere ascoltate e tradotte in forme costruite.
Quanto al processo di costruzione, il più delle volte le capacità e i lavoratori qualificati necessari vengono dalla comunità stessa, ed è quindi la comunità a costruire le sue proprie infrastrutture, a ridisegnare i suoi spazi, a riplasmare la città a partire dalle sue proprie forze. Non dobbiamo dimenticare che gli abitanti dei barrios sono spesso gli stessi che vengono impiegati nella realizzazione della città formale.
- Architetti:
- PICO Colectivo
- Progetto:
- Community Facilities System
- Luogo:
- Los Frailes de Catia, Caracas, Venezuela
- Periodo di realizzazione:
- 2015-2019
- Team:
- Aparatos Contingentes : Marcos Coronel, Stevenson Piña (PICO Colectivo), Gabriel Visconti (Aga estudio), Ricardo Sanz, and Rodrigo Marín.
- Design team :
- María Isabel Ramírez, Ana Cristina Morales, Laura Di Benedetto, Karina Domínguez, José Bastidas, Adriano Pastorino, Joan Martínez, Ruth Mora, Angel Chaparro, Nelyfred Maurera.
- Realizzazione :
- squadre di costruttori locali, guidate da Jesus Fuentes, Danny Arraez, Juan Ortega, Máximo Fonseca, Roger Cólmenarez, Juan Linares
