Alla ri-scoperta di Fernand Pouillon

Il nuovo libro dei fotografi Leo Fabrizio e Daphné Bengoa riporta alla luce il lavoro (quasi) dimenticato del prolifico architetto francese in Algeria.

In occasione della 50ma edizione del festival di fotografia Les Rencontres d’Arles (Francia, 1 luglio – 22 settembre), il fotografo italo-svizzero Leo Fabrizio presenta un nuovo progetto editoriale co-firmato con la fotografa e regista greco-basca Daphné Bengoa. Intitolato Fernand Pouillon et l'Algérie: Bâtir à hauteur d'hommes (Éditions Macula, 2019), il libro intende riaccendere la curiosità sull’opera ingiustamente dimenticata del prolifico architetto francese Fernand Pouillon (1912-1986) nel paese nordafricano.

Da Bunker (2004) a Dreamworld (2007), Leo Fabrizio è noto per le sue lunghe e dettagliate indagini fotografiche incentrate su paesaggi architettonici atipici. Iniziata nel 2014, la sua ricerca su Pouillon non fa eccezione. “In una società che vuole andare veloce, lavorare sull’opera di una vita di un uomo richiede tempo”, confida il fotografo, che per localizzare i numerosi complessi abitativi e piani urbanistici realizzati dall’architetto francese – ad Algeri, ma anche a Parigi, Aix-en-Provence, Marsiglia, e in Iran – ha dovuto passare al setaccio l’esigua bibliografia a disposizione e parlare con specialisti e persone che lo conoscevano direttamente. “Con Fernand Pouillon, nulla è facile”, spiega il fotografo. “La sua mancanza di interesse per il proprio archivio rende gli elenchi incompleti e molti luoghi ed edifici rimangono sconosciuti, come nell’Africa sub-sahariana o in Iran. È davvero un peccato perché Pouillon è forse l’architetto che ha costruito di più nel ventesimo secolo ed è certamente uno dei più rilevanti del suo tempo”, continua Fabrizio.

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Foto courtesy Leo Fabrizio

Allo stesso tempo precursore e outsider, Pouillon condannava pubblicamente il colonialismo, l’avvento post-bellico delle automobili e lo stile internazionale, rivendicando il valore delle risorse e dei paesaggi locali. Recentemente, il suo approccio attento al sociale e all’ambiente ha addirittura spinto l’architetto e filosofo francese Stéphane Gruet a definirlo un architetto “sostenibile” nel suo libro Pouillon, une architecture durable (Ed. Transversales, 2018). Visto il curriculum e le nobili intenzioni del personaggio – che fu contemporaneo di Le Corbusier e produsse una quantità di scritti che nulla hanno da invidiare, per lucidità e profondità, a quelli dell’architetto svizzero –, sorprende quindi che la sua storia e la sua opera siano cadute in completo oblio. “La sua eredità ha sofferto di un profondo malinteso”, constata Leo Fabrizio, che raccomanda di leggere il libro Fernand Pouillon, l'homme à abattre (Bernard Marrey, Ed. Du Linteau, 2010) per aiutarci a fare luce sulle questioni politiche e giuridiche – ma anche le gelosie – che spinsero stampa, amministratori e opinione pubblica a boicottare l’operato dell’architetto durante i suoi anni di attività. Come afferma Fabrizio, “per comprendere Pouillon, bisogna liberarsi dalla forte eredità modernista e dall’educazione che abbiamo ricevuto, e sbarazzarsi delle nostre idee preconcette”. Determinato a fare proprio questo – con l’ulteriore speranza di riuscire a ripristinare la reputazione di Pouillon – lo sforzo del fotografo è ambizioso: compilare “un’iconografia reale e completa dell’opera dell’architetto”, a partire dall’Algeria, dove Pouillon costruì ampiamente sia durante il periodo coloniale francese che dopo l’indipendenza.

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Vera e propria città nella città, Climat de France (1957), presenta una piazza centrale di 233 x 38 metri conosciuta come la "piazza delle 200 colonne". Algeri, 2018 - Foto courtesy Leo Fabrizio

Se è vero che Pouillon fu rinnegato e presto dimenticato da colleghi e pubblico in Francia, in Algeria Fabrizio ha scoperto una realtà diversa: “nelle case popolari che ho visitato, tutti, vecchi e giovani, ricordano due nomi: quello di Pouillon e quello del sindaco Jacques Chevallier che gli commissionò gli edifici, alcuni dei quali risalgono agli anni ’50”. Durante il suo reportage nel paese nordafricano – dove, nel 2018, ha trascorso 10-12 giorni ogni 2 mesi –, Fabrizio ha incontrato molte persone che hanno vissuto per tutta la vita nei grandi complessi progettati dall’architetto. Come il celebre Climat de France ad Algeri, una grande città nella città, che il fotografo francese Stéphane Couturier aveva già documentato nel 2014. “Ho vissuto l’architettura, dormito tra le sue mura, lavorato per svariati giorni insieme ai suoi abitanti. Inevitabilmente, sono diventato parte del paesaggio e sono stato accolto nell’intimità delle case dove la gente mi ha raccontato le proprie storie”, spiega Fabrizio. Eppure gli abitanti rimangono assenti dai suoi scatti. Come spiega Fabrizio, questo è dovuto ai problemi tecnici legati all’utilizzo di un banco ottico: “è l’unico strumento fotografico che ti permette di giocare con la prospettiva e riprodurla correttamente”, sottolinea, “questo però ha degli svantaggi: il peso (40 chili di materiale), le spese per le pellicole di grande formato, la necessità di un treppiede, il processo di produzione lento e il tempo di esposizione lungo che rende molto difficile fissare i movimenti”, e quindi catturare le persone sulle immagini. Da qui l’idea di Fabrizio di invitare Daphné Bengoa – che si è unita al progetto nel 2017 – a controbilanciare questa assenza e a “fare luce sull’argomento in maniera diversa".

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Foto courtesy Daphne Bengoa

Abituata a esplorare questioni sociali nelle sue opere fotografiche e nei suoi film, Bengoa ha scelto di introdurre gli spettatori alla vita di tutti i giorni delle persone che abitano e sperimentano quotidianamente le architetture di Pouillon. La fotografa ha iniziato la sua ricerca conducendo numerose interviste con gli abitanti e “più specificamente con le donne, che mi hanno aperto le porte delle loro case”, afferma. “Nonostante ogni conversazione iniziasse con lunghe descrizioni riguardo i precedenti arrangiamenti delle stanze, i tipi di materiali o le modifiche degli spazi nel tempo, rapidamente le mie interlocutrici passavano ai ricordi di famiglia e alle preoccupazioni personali. Inoltre, anche se la maggior parte di loro rimpiangeva la mancanza di investimenti per mantenere gli edifici in buono stato, tutte ripetevano quanto si sentissero attaccate al loro quartiere e preferissero rimanere a vivere lì invece di essere spostate altrove”, racconta Bengoa.

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Foto courtesy Daphne Bengoa

Spesso tacciate di essere meramente gigantesche baraccopoli costruite dal governo coloniale francese per alloggiare – e quindi controllare – la popolazione musulmana locale, da tempo i complessi architettonici costruiti nel 1962, prima dell’indipendenza algerina, sono stati modificati dagli abitanti, che ne hanno dato una nuova chiave di lettura. Un destino comune a molte costruzioni post belliche del Nord Africa – come testimonia la ricerca della curatrice tedesca Marion von Osten in Marocco (“Architecture Without Architects: Another Anarchist Approach”, e.flux Journal #6, 2009) – che, secondo l’autore Stéphane Gruet, sono “segni di resistenza” che “nobilitano la costruzione anziché corromperla”. Sono questi addomesticamenti improvvisati – definiti da Fabrizio “gli strati di tutti coloro che hanno abitato, modificato e inciso la loro vita su queste mura” – che il progetto Fernand Pouillon et l’Algérie: Bâtir à hauteur d’hommes riesce a catturare, raccontando, per estensione, le storie della folla anonima dietro a questi interventi. “Personalmente, credo che queste trasformazioni siano l’espressione della vita che si impadronisce delle costruzioni, un segno di bellezza organica. L’edificio deve adattarsi agli esseri umani allo stesso modo in cui gli esseri umani devono adattarsi alle nuove forme della città”, conclude Daphné Bengoa.

In un momento storico in cui la popolazione algerina manifesta pacificamente per le strade di Algeri per denunciare il governo di Saïd Bouteflika, guardare a Pouillon e alla sua eredità architettonica e intellettuale appare come un buon modo di celebrare la forza dei movimenti dal basso e dei piccoli atti di appropriazione spontanea.

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