L’utopia nera di un Bauhaus afroamericano

Nel Diario di questo mese, pagine dedicate all’attualità, Melissa Daniel ci parla dell’utopia nera di un Bauhaus afroamericano, come Black Wall Street a Tulsa, in Oklahoma, negli anni Venti del Novecento, e Seneca Village a New York, negli anni Venti dell’Ottocento.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1051, novembre 2020.

Il vibranio non esiste. E l’utopia nera di Wakanda, dove i nostri antenati realizzarono grandi progressi tecnologici, trasporti e infrastrutture di classe superiore, nonché un’architettura mirabolante, è una finzione fantastica dell’universo Marvel della Disney. Dopo la Guerra di secessione americana, gli afroamericani (AA) costituirono fiorenti comunità come Black Wall Street a Tulsa, in Oklahoma, negli anni Venti del Novecento, e Seneca Village a New York, negli anni Venti dell’Ottocento. Purtroppo, il tentativo di configurare un’utopia nera venne frustrato dalla paura e dall’odio.

In tutta la storia americana, gli afroamericani non hanno mai avuto la libertà di scegliere dove vivere. La normativa sulle Aree riservate e gli Accordi restrittivi, per esempio, escludeva i neri dalla proprietà della casa. Le cose sarebbero andate diversamente se, dopo la Guerra di secessione, gli afroamericani avessero continuato a vivere in queste comunità e avessero potuto rivolgersi ad architetti e urbanisti di colore? Cosa accadrebbe se gli architetti AA arrivassero al 30 per cento del totale, invece che all’attuale due per cento? Se non esistessero barriere razziali, quale aspetto avrebbe l’ambiente costruito con più architetti e urbanisti AA?

Si noti che l’utopia nera non ha caratteristiche di esclusione. Il Seneca Village di New York, per esempio, era una comunità integrata con la classe operaia degli immigrati europei, tutti possedevano la loro casa. Questa comunità mista frequentava le stesse chiese e i bambini andavano alla stessa scuola fino a quando l’amministrazione comunale non sfrattò i residenti per realizzare un parco pubblico, oggi noto come Central Park.

Se il Seneca Village avesse conservato l’integrazione razziale e la comunità intatta, l’affermazione di stereotipi e disuguaglianze di radice antica non avrebbe trionfato. Non ci sarebbero quartieri neri e scuole suburbane dove gli studenti arrivano in autobus. Al loro posto, l’occasione di un’edilizia del benessere basata sulla proprietà immobiliare degli afroamericani avrebbe prodotto altri quartieri in tutti gli Stati Uniti e ispirato i futuri architetti e urbanisti a progettare e a costruire.

La formazione all’architettura ha una parte importante nella creazione di comunità di questo tipo. I fondamenti di una didattica e di una storia dell’architettura sarebbero ampiamente diversi da quelli delle istituzioni abilitanti di oggi. Lo studio dei territori indigeni, degli artefatti e delle infrastrutture ancestrali sarebbe la base di qualunque progetto.

L’architetto Shelly-Anne Tulia Scott, laureata alla Caribbean School of Architecture di Kingston, in Giamaica, parla con soddisfazione della sua formazione, che includeva riflessioni sui modi creativi del costruire, partendo dal territorio, e la partecipazione a viaggi di studio di due settimane in un altro Paese per imparare l’ecologia, le istituzioni comunitarie e le leggi di quel territorio.

Shelly-Anne ricorda il suo viaggio di studio al Viejo San Juan di Puerto Rico: “Abbiamo studiato gli spazi pubblici e il loro rapporto con l’architettura. Poi abbiamo presentato la ricerca all’università”. I programmi dello studio dell’architettura all’estero sono uguali, tranne che nei Paesi non europei. “Dato che ero in viaggio di studio, dovevo vivere la vita e la cultura prima di progettare”, continua Scott. “Analizzare quel luogo, comprendere la comunità reale, fondersi con gli abitanti e scoprire le caratteristiche culturali reali”. Una diversa commissione per l’abilitazione all’esercizio dell’architettura riconoscerebbe che la storia degli indigeni è alla base della fondazione di qualunque comunità. Se si è più inclusivi, le interazioni autentiche possono essere una “mecca culturale” per l’arte, l’architettura e il design.

Senza barriere di origine razziale, l’evoluzione di questo polo culturale viene a costituire una nuova scuola di pensiero. Sulla scia del Bauhaus, la nuova scuola comprende il ricongiungimento dei discendenti degli schiavi con i loro territori e Paesi d’origine in Senegal, Sierra Leone, Ghana e altri Paesi dell’Africa occidentale.

Questo Bauhaus afroamericano andrebbe a lezione dalle culture indigene per creare nuovi linguaggi progettuali. Dall’architettura Yoruba della Nigeria a quella Pueblo degli Stati Uniti sudoccidentali emerge l’importanza della conservazione della storia orale, mentre l’espressione del patrimonio culturale trova posto nei Paesi e nei corpi violati. Dedicata all’eticità e all’identità locale-spaziale di ciascuno, l’AA Bauhaus sarebbe un polo sperimentale in grado di esprimere una definizione e creare un repertorio degli architetti afroamericani. Con il trascorrere del tempo e il mutare degli stili, questo movimento potrebbe poi fondersi con l’architettura coloniale.

In un rapido avvicinarsi a un ideale 30 per cento (di architetti AA), l’universo di Wakanda della Marvel appare meno fantasioso. L’eliminazione delle barriere razziali amplierebbe il repertorio delle tipologie architettoniche, il vernacolare non esisterebbe più e la presunta sicurezza di uno spazio non sarebbe più in balia della giustizia sociale e della gentrificazione. L’utopia nera non è uno stile afrocentrico: è l’occasione di dare vita a un’unione più completa. L’architetto nero, punto di fusione dell’uguaglianza e della libertà delle idee, diventa così semplicemente un architetto, più ricco nella sua identità culturale e nel suo senso del luogo.

In un rapido avvicinarsi a un ideale 30 per cento (di architetti AA), l’universo di Wakanda della Marvel appare meno fantasioso. L’eliminazione delle barriere razziali amplierebbe il repertorio delle tipologie architettoniche, il vernacolare non esisterebbe più e la presunta sicurezza di uno spazio non sarebbe più in balia della giustizia sociale e della gentrificazione. L’utopia nera non è uno stile afrocentrico: è l’occasione di dare vita a un’unione più completa. L’architetto nero, punto di fusione dell’uguaglianza e della libertà delle idee, diventa così semplicemente un architetto, più ricco nella sua identità culturale e nel suo senso del luogo.

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