Biennale 2018: 5 padiglioni da non perdere

Una selezione di padiglioni che offrono una panoramica del maggior numero possibile di declinazioni del tema di quest’anno: Freespace.

UK Pavilion

USA. “Dimensions of citizenship”
A cura di Niall Atkinson, Ann Lui, Mimi Zeiger

Quali forme di cittadinanza sono ancora possibili, o diventeranno possibili, in un momento storico nel quale la maggior parte dei governi nazionali sembra soprattutto impegnata a limitare la valenza e l’applicazione di questo statuto? Non è un caso che proprio il primo Padiglione degli Stati Uniti di Donald Trump concentri la sua proposta sulle Dimensions of citizenship, approfittando della più grande rassegna di architettura mondiale per riflettere su temi che esulano ampiamente dalla sfera disciplinare più ristretta.

Il team di curatori di altissimo livello, che comprende Niall Atkinson della University of Chicago, Ann Lui della School of the Art Institute of Chicago e Mimi Zeiger, editorialista di Dezeen, si propone di esplorare le relazioni molteplici che s’instaurano tra la costruzione fisica dello spazio e la sua capacità di generare forme di appartenenza nei suoi utilizzatori. È il ruolo stesso della pratica architettonica a essere sottoposto ad indagine: “È urgente che l’architettura cominci ad agire come un dispositivo per comprendere, dare forma e immaginare cosa significa essere un cittadino oggi”.

Gran Bretagna. “Island”
A cura di Caruso St John Architects, Marcus Taylor

Il Padiglione della Gran Bretagna è il punto di fuga centrale della prospettiva che accoglie i visitatori all’ingresso dei Giardini della Biennale. A breve, invece, sarà meno “centrale” il ruolo della Gran Bretagna nelle vicende del continente europeo, da cui ha scelto di distanziarsi. Il primo padiglione post-Brexit sceglie di interrogarsi proprio sulla dimensione d’isolamento o, più precisamente, nel caso specifico del suo paese promotore, d’insularità geografica e ora anche politica. Dagli indizi a disposizione si può prevedere che il padiglione 2018 riuscirà ad eguagliare l’altissima qualità dei progetti curatoriali del 2016 (“Home Economics”, a cura di Shumi Bose, Jack Self e Finn Williams) e del 2014 (“A clockwork Jerusalem”, a cura di Crimson Architectural Historians e FAT Architecture) seppur con un taglio completamente diverso e decisamente più sintetico.

L’interno del padiglione resterà completamente vuoto. Grazie a questa sottrazione totale, mostrerà ostensivamente le sue strutture e le tracce, molteplici e contraddittorie, che dodici decenni di utilizzo hanno impresso su di esse. Un sistema di impalcature esterne all’edificio sosterrà un’”isola” di spazio pubblico sopraelevato, aperta ai visitatori come punto di vista inedito sui Giardini, e ai curatori dei padiglioni vicini come possibile location per le loro attività. “Un Isola può essere un luogo di rifugio e di esilio”, affermano Caruso St John Architects e Marcus Taylor: sarà interessante osservare come i visitatori della Biennale sapranno interpretare e appropriarsi di questo insolito belvedere.

Spagna. “Becoming”
A cura di Axtu Amann

Il Padiglione della Spagna, vincitore del Leone d’Oro dell’ultima edizione della Biennale, sembra seguire una strategia diametralmente opposta rispetto a quello della Gran Bretagna. Lì, i contenuti della mostra sono annullati e rimpiazzati dalla costruzione di uno spazio da percorrere ed esperire. Qui, il curatore Axtu Amann ha definito 55 aggettivi attorno a cui si concentrano le ben 143 proposte esposte (descritte come “azioni, discorsi e progetti”) selezionate tramite una open call. Tutte sono state sviluppate tra il 2012 e il 2017 e provengono da studenti, coerentemente con l’obiettivo dichiarato di difendere gli “ambienti dell’apprendimento come luoghi per la critica e la creazione architettonica”. Altri 293 progetti sono presentati nel padiglione virtuale che duplicherà quello fisico. Di fronte a questi numeri è difficile prevedere se il risultato finale sarà un caleidoscopio ricco di suggestioni o un tutti-dentro un po’ confuso.

Più promettente, invece, è la scelta degli spagnoli (su questo punto allineati ai britannici) di ripensare i freespaces disponibili nel loro stesso padiglione: un’ulteriore call per studenti ha premiato una proposta di ristrutturazione dei suoi spazi aperti, la cui nuova configurazione resterà come eredità permanente di questa edizione, e il suggerimento di ridisegnare e aprire al pubblico i locali sul retro, normalmente utilizzati come deposito. Lodevole, infine, la scelta di associarsi con belgi e olandesi nell’iniziativa Out of the Box Celebration: gli spazi di risulta compresi tra i rispettivi edifici saranno oggetto di un progetto unitario (vincitore tra più di 100 concorrenti) significativamente e ottimisticamente intitolato Europa.

Portogallo. “Public Without Rhetoric”
A cura di Nuno Brandão Costa, Sérgio Mah

La partecipazione del Portogallo, tra le poche grandi nazioni europee a non disporre di un padiglione all’interno dei Giardini, si terrà quest’anno a Palazzo Giustinian Lolin. A prima vista, la scelta dei curatori Nuno Brandão Costa e Sérgio Mah di concentrarsi “sull’architettura pubblica portoghese” può sembrare pigramente tradizionalista, di fronte alle possibilità di declinazione offerte dal tema Freespace. E anche nelle generazioni meno giovani dei progettisti esposti emergono nomi non proprio sorprendenti (i “soliti” Pritzker di Porto, Álvaro Siza e Edoardo Souto de Moura, ma anche Gonçalo Byrne e gli Aires Mateus).

Non è escluso, però, che “Public Without Rhetoric” si riveli una sorpresa positiva, per almeno due ragioni. In un’epoca caratterizzata da una profonda crisi del welfare state, mentre è in corso un’intensa attività di ricerca e messa in atto di forme sostitutive di infrastrutturazione pubblica, può essere utile tornare a riflettere anche su una modalità più consolidata di costruzione del common ground delle città, nell’ipotesi (o speranza?) che essa non abbia ancora del tutto esaurito il suo corso. Interessante, inoltre, è il riferimento alla dimensione “retorica”, o meglio alla possibilità di una sua assenza: che si tratti di una critica velata alla stessa formulazione di Freespace, termine certamente accattivante ma anche facilmente manipolabile?

Cina. “Building a Future Countryside”
A cura di Li Xiangning

In tutto il mondo, l’immagine più consolidata della Cina contemporanea sono le sue immense aree urbanizzate, con le loro problematiche più o meno croniche (inquinamento, crisi abitativa, mancanza di una coscienza patrimoniale) e potenzialità (una classe media in continua espansione per cui costruire la città del futuro). Con una scelta controcorrente rispetto a queste tendenze, il curatore Li Xiangning decide di non parlare delle megalopoli del suo paese. Il padiglione cinese del 2018 cerca il suo freespace nelle campagne, i vuoti senza fine dell’altrettanto smisurata Repubblica Popolare, meno mediatizzati della loro controparte urbana ma spesso intensamente abitati, antropizzati, coltivati. È un cambiamento di prospettiva assolutamente benvenuto e necessario, che sembra prefigurare una via realistica di crescita per il paese asiatico, prima che l’attuale sfruttamento indiscriminato delle sue risorse territoriali lo spinga fino ad una soglia di non ritorno. “La motivazione di questa mostra oltrepassa la xiangchou, termine cinese che si riferisce alla nostalgia per i territori rurali. Torniamo ad esplorare la campagna dove è nata la cultura cinese, per riportare alla luce valori dimenticati e possibilità ignorate. Da li costruiremo la campagna futura”, afferma Li Xiangning.

Titolo:
Padiglioni Nazionali
Evento:
16. Mostra Internazionale di Architettura
Date di apertura:
26 maggio – 25 novembre 2018

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