Marginal Studio: dal design alla produzione sociale

Dal 2016 Zeno Franchini e Francesca Gattello hanno aperto il loro studio a Palermo, luogo complesso e ricco di sfide, dove stanno lavorando con artigiani locali e migranti.

Marginal Studio, Terracruda

In attesa di ospitare Manifesta, Palermo vive un interessante momento di vivacità culturale anche sul fronte del design, soprattutto grazie al lavoro di Zeno Franchini e Francesca Gattello, alias Marginal Studio. Li abbiamo incontrati per approfondire il loro lavoro.

Dal 2016 avete aperto il vostro studio a Palermo. Come mai questa scelta e che contesto avete trovato?
Abbiamo scelto Palermo per il suo essere città storicamente di passaggio e luogo d’incontro d’innumerevoli culture. È un luogo complesso e ricco di sfide. Palermo ci permette poi di lavorare con una qualità della vita invidiabile e un potenziale produttivo artigiano incredibile.

Vi definite uno studio di ricerca che esplora i margini disciplinari del design e il ruolo che può svolgere nella creazione delle società. Potete chiarire questo concetto?
Cerchiamo di esplorare il ruolo che il design può avere al di là della produzione industriale, che oggi in Italia è limitata. Nelle società occidentali, post-industriali, progettare vuol dire fare i conti con un contesto sociale e ambientale molto complesso, e non sempre la risposta è aggiungere un nuovo prodotto. Per questo è necessario ampliare il più possibile gli ambiti collaborando con altre discipline scientifiche. Nel nostro caso, scienziati ambientali, genetisti, agronomi, sociologi ed altri esperti, che difficilmente entrano a far parte dei processi creativi.

In particolare, il vostro lavoro è calato nell’analisi e nella proposta di progetti che guardano ai flussi migratori come fattore di trasformazione. Un tema complesso e poco indagato dal mondo del design. Perché questa scelta e quali sono i progetti sui quali state lavorando?
Stiamo lavorando al progetto di recupero di un padiglione industriale nell’area dei cantieri culturali della Zisa in collaborazione con il CRESM (Centro Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione). La prima commissione è il recupero di un marchio storico di Palermo, quello del Mobilificio Ducrot: realizzeremo una collezione per Enrico Ducrot, erede della famiglia. Un altro progetto a cui partecipiamo è il MADE Program, Accademia di Arte e Design a Siracusa, in cui siamo coinvolti come tutor del corso di design; un’esperienza che ci arricchisce molto, a contatto con i futuri designer siciliani.

Mi sembra che Khi-Mi-Kunti esprima al meglio la vostra idea di design inteso come fattore di un dissenso costruttivo per sperimentare un necessario ripensamento disciplinare che sia anche una forma di pratica sociale e di presa di coscienza politica. Potete descrivere il progetto e chiarire gli sviluppi e gli scenari che apre sul territorio e non solo?
Il progetto parte dal nostro interesse verso l’indagine della manifattura vernacolare in un contesto globalizzato come l’attuale, dove sono ancora presenti flussi migratori di massa. Nei nostri incontri abbiamo colto l’opportunità di mettere assieme artigiani locali, che faticano a mantenersi sul mercato, e migranti, le cui conoscenze vengono spesso ignorate o sminuite. Il nostro obiettivo, dunque, è porci come facilitatori di questo processo che definiamo di “produzione sociale”, ricercando artigiani esperti, eccellenze, materiali e lavorazioni dimenticate, e progettando artefatti che possano essere strumenti di reinterpretazione delle tecniche tradizionali. Cerchiamo d’introdurre nuove tematiche, a volte provocatorie rispetto alla tradizione, come processi tecnologici digitali in manifatture artigianali, evitando di riprodurre motivi e forme già consolidate.

I migranti e un tessuto manifatturiero disintegrato sono le leve per immaginare una nuova concezione di produzione locale e di rinnovate strutture sociali. È un’indicazione, una sollecitazione a scommettere sul design per la rinascita di territori periferici?
La scarsità di committenti pubblici e privati favorisce la creazione di una rete di mutuo supporto composta da associazioni culturali, operatori sociali, designer e architetti. Quando i committenti coincidono con gli stessi partecipanti al progetto, diventa più semplice affrontare lavori di più ampio respiro attraverso l’integrazione di conoscenze, network e professionalità. Da una parte è un invito rivolto ad altri designer e creativi a spostarsi in contesti più periferici, dove è più difficile realizzare progetti di design “classico” e spesso manca una comunità professionale di riferimento. Proprio in quei contesti la progettazione può essere fondamentale attraverso l’elaborazione di nuovi processi e nuove forme, con l’umiltà di porsi non come deus ex machina, ma come partecipi in un tessuto sociale complesso. Questo approccio è vitale su un territorio che ha sempre subito la pianificazione calata dall’alto, dalla ricostruzione post-terremoto (Belìce) alle speculazioni edilizie e urbanistiche (Sacco di Palermo, Zen).

Le vostre pratiche progettuali suggeriscono una modificazione della nostra immaginazione sociale. Come stanno rispondendo Palermo e la Sicilia e quali sono i progetti per il futuro?
Palermo è una città in cui è difficile riuscire ad arrivare “sotto pelle”, siamo riusciti a ritagliarci una comunità di riferimento che ci aiuta e supporta nei nostri progetti. Si tratta di un adattamento reciproco e ogni giorno impariamo qualcosa di più sull’immenso patrimonio culturale della città. Vediamo il nostro futuro in questa terra di contrasti, abbiamo scommesso su progetti che ci occuperanno nei prossimi anni. Il nostro obiettivo è presentare la nostra ricerca anche ad altre istituzioni per poter creare uno scambio internazionale e fare conoscere le potenzialità di questo territorio.

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