A bordo del piroscafo che affonda? Report dalla Biennale di Architettura di Chicago

Con l’ossimoro del titolo “Make New History”, lo studio di Los Angeles Johnston Marklee, curatore della seconda Biennale d’Architettura di Chicago, suggerisce che la storia potrebbe permettere agli architetti di guardare al passato per dare forma al presente.

Caruso St John con Thomas Demand ed Hélène Binet, Constructions and References, 2017. Courtesy of Chicago Architecture Biennial. Photo © Tom Harris

L’architetto di Chicago Stanley Tigerman, nel suo collage concettuale The Titanic, del 1978, manipolò l’immagine di un celeberrimo edificio di Mies van der Rohe del 1947, la Crown Hall dell’Illinois Institute of Technology: per un terzo affondava nel Lago Michigan e per due terzi emergeva dall’acqua. Il collage è contemporaneamente il ripudio e l’apoteosi dell’opprimente presenza del maestro: Tigerman proclama un’ammirazione senza limiti per l’architetto tedesco e vive dagli anni Sessanta in un appartamento del Lake Shore Drive di Mies; e tuttavia ha combattuto la banalizzazione dell’estetica di Mies a opera di un’intera generazione di architetti attivi nell’area di Chicago. In altre parole, il collage parla del complicato rapporto di Tigerman con la storia, ed era una critica allo stato della pedagogia e della prassi architettonica di Chicago negli anni Settanta. Sintetizzava l’atteggiamento di un’intera generazione di architetti, che prendevano posizione e si servivano della storia recente e antica per andare avanti.

Il Chicago Cultural Center, una delle sedi principali della Biennale, 2017. Courtesy of Chicago Architecture Biennial. Photo Kendall McCaugherty © Hall Merrick Photographers

Con l’ossimoro del titolo “Make New History” (“Per una storia nuova”), lo studio di Los Angeles Johnston Marklee, curatore della seconda Biennale d’Architettura di Chicago, suggerisce che la storia – una volta di più – potrebbe permettere agli architetti di guardare al passato per dare forma al presente: “Guardiamo indietro per muoverci in avanti”. Sulla mostra aleggia un fantasma di Postmodernismo, con l’installazione Super Models di Silvia Lavin – la più postmoderna di tutte – remake di una serie di modelli raccolti da Heinrich Klotz negli anni Ottanta per il Deutsches Architekturmuseum (DAM) di Francoforte. A parte il fascino delle miniature, il lavoro di Lavin solleva questioni di copia e autenticità.

Il tentativo di mettere in rapporto l’architettura e la storia si colloca, con maggiore o minore successo, nel quadro di “Vertical City” (“Città verticale”) e “Horizontal City” (“Città orizzontale”), due sezioni espositive che funzionano in coppia e costituiscono il nucleo centrale della mostra di Chicago. “Vertical City”, revival di un revival, si ispira a un’altra mostra – “The Late entries to the Chicago Tribune Tower Competition” (“Candidature recenti al concorso per il grattacielo del Chicago Tribune”) – organizzata nel 1980 da Tigerman e da Chicago Seven. Allo scopo di “mettere insieme uno spaccato contemporaneo delle idee e delle correnti dell’architettura” gli architetti erano invitati a presentare schemi alternativi per il concorso del 1922 per la sede del Chicago Tribune, che ricevette 263 proposte da tutto il mondo. Mentre la versione del 1980 del concorso del Chicago Tribune era decisamente fondata sulla carta, per “Vertical City” a ogni studio è stato chiesto di realizzare un modello alto 4,80 metri, da collocare nella bella cornice della Yates Hall del Chicago Cultural Centre, dove il concreto confronto con la storia sta nella giustapposizione.

I grattacieli appaiono pure esercitazioni formali: 15 architetti liberi di esprimere le proprie fantasie, al di là di vincoli tecnici e giuridici. Sebbene non manchino alcune sperimentazioni interessanti (per esempio lo studio londinese 6a Architects ha realizzato degli oggetti sorprendenti usando il legno tornito, mentre Eric Lapierre ha preso a prestito la forma della colonna dal progetto dei 365 alloggi per studenti di Parigi) e benché si distinguano oggetti di grande qualità estetica (una torre astratta dorata di Barbas Lopes Arquitectos e un monolito nero di Barozzi Veiga), l’insieme manca di una vera e propria presa di posizione curatoriale e perfino di leggibilità. Le etichette che identificano ciascuna torre sono tutte collocate sulla parete dell’ingresso invece che accanto a ciascuna torre, e richiedono ai visitatori uno sforzo di ricostruzione superfluo. Un’altra tendenza che risalta nella foresta di grattacieli è l’innegabile revival del collage, bi- e tridimensionale. Come cadavres exquis i grattacieli di Tatiana Bilbao Estudio e Sam Jacob Studio risaltano come esempi particolarmente calzanti di questa tendenza. In “Horizontal City” è stato chiesto a 24 architetti, di cui numerosi appartenenti a studi di recente costituzione, di scegliere fotografie di interni che portassero alla realizzazione di un modello orizzontale di grande scala che si riferisse alla “ricchezza della storia della rappresentazione degli interni come modello di relazioni sociali”. Nell’insieme la distesa dei plinti fa riferimento (una volta di più!) alla pianta della Crown Hall di Mies e produce una “immagine residua collettiva” che occupa lo spazio della sala della Grand Army of the Republic (la GAR Hall).

Installation view of Jorge Otero-Pailos, The Ethics of Dust. Photo © Hall Merrick Photographers

Anche se sa un po’ troppo di esercizio scolasticoHorizontal City” rimane senza dubbio la proposta più interessante della Biennale di quest’anno. La ricerca accuratamente realizzata dello studio DRDH di Londra adotta lo spazio interno atemporale del Pantheon rappresentato in una fotografia dell’artista tedesco Thomas Struth per realizzare un’efficace opera in gesso in forma di trittico, “estraneo al tempo e tuttavia centrale per la storia dell’architettura, arcaico eppure assolutamente contemporaneo nell’astrattezza delle sue forme platoniche”. In un altro esempio della tendenza al cadavre exquis l’architetto americano Andrew Kovacs presenta Proposal for collective Living II (Homage to Sir John Soane) (“Proposta di soggiorno collettivo II. Omaggio a John Soane”), opera colorita, interessante e coinvolgente, secondo la quale affrontare la storia è “trarre architettura dall’architettura”. Interessante è anche l’opera degli studi giovani che adottano precedenti celebri per ripensare l’architettura attraverso il colore e i materiali, e dall’interno all’esterno invece che dall’esterno all’interno: Maio di Barcellona guarda all’opera di Duchamp per creare The Grand Interior (“Il grande interno”), paesaggio rosa di interni senza pareti, mentre Bureau Spectacular di Los Angeles presenta un ambiguo visore domestico fatto di pelliccia e vetro. Tra verticale e orizzontale, restano poche alternative per affrontare la storia. Particolarmente interessanti i pezzi dell’architetto, artista e conservatore americano Jorge Otero-Pailos e dell’artista svizzera Marianne Mueller, entrambi risposte dirette all’architettura del Chicago Cultural Center, già sede della Chicago Public Library. Documentando le molte vite dell’edificio Mueller coglie il conflitto tra la nobile architettura dell’edificio ottocentesco e la genericità dei materiali delle addizioni successive. L’intervento consiste in una serie di ingrandimenti fotografici installati nelle belle vetrine della GAR Hall, che aprono un dialogo sull’interno e fanno da contrappeso al gran numero di modelli di “Vertical City”.

In “The Ethics of Dust” (“L’etica della polvere”) è esposta una serie di fusioni derivanti dalla ripulitura antiinquinamento di monumenti di tutto il mondo, già esposte tra altro a Londra, Parigi e Venezia. Otero-Pailos, oggi direttore del programma per la conservazione della Columbia University, invita gli architetti a reinterpretare i frammenti della storia e a tradurli non in uno storicismo postmoderno o in un pastiche, ma in una nuova forma contemporanea di estetica che fonda linguaggi architettonici e artistici. L’inquinamento, scrive, “è il prodotto più duraturo della nostra civiltà”. È quindi attraverso l’atto di rendere tangibile l’intangibile e l’attenta orchestrazione del dispiegarsi dell’opera nella sequenza spaziale del Cultural Centre (cosa che, senza le indicazioni dello stesso Otero-Pailos, potrebbe tuttavia risultare di difficile lettura) che quest’opera parla del nostro rapporto con la storia antica e recente. La visita della Biennale d’Architettura di Chicago 2017 non serve granché a chiarire perché e in qual modo gli architetti contemporanei si servano della storia nei loro progetti. “Come fare una nuova storia” si è chiesto Kersten Geers nel corso della manifestazione “Now + Then: Occasional History” (“Ora + Allora: storia d’occasione”) dell’Università dell’Illinois a Chicago (UIC), altra riproposta della manifestazione registrata nel 1982 a Charlottesville, nel corso della quale professionisti americani, europei e giapponesi erano stati invitati a presentare e discutere un progetto ciascuno. Manifestazioni come “Now + Then” hanno segnato le giornate d’apertura con dibattiti promettenti, e tuttavia il panorama della professione contemporanea è profondamente differente da quello dei tardi anni Settata e dei primi anni Ottanta. Di fronte al vuoto teorico e ideologico contro chi e contro che cosa i giovani architetti possono prendere posizione?

Stanley Tigerman, I pledge allegiance to the lozenge and to the implications for which it stands. Courtesy of Chicago Architecture Biennial. Photo Kendall McCaugherty © Hall Merrick Photographers

Se, come affermano i direttori artistici della seconda Biennale d’Architettura di Chicago, “la formula biennale sta al centro del progetto culturale ed espositivo d’architettura: un luogo di dibattito per raggiungere e creare nuovo pubblico”, la mancanza di una forte posizione curatoriale – come spesso càpita oggi alle biennali a cura delle archistar – può suggerire che la comunità dell’architettura sia semplicemente sovraccarica di un’abbondanza di manifestazioni che supera la portata del tempo e dell’immaginazione. Il piroscafo della Biennale sta affondando?

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