Modernismo coreano

Minsuk Cho, curatore del padiglione coreano a Venezia, che quest'anno ha meritato il Leone d'Oro, racconta il percorso dinamico e appassionante che ha creato una rete tra i professionisti al lavoro sui temi dell’architettura, tanto nella Corea del Nord quanto in quella del Sud.

Pelin Tan: il padiglione della Corea, dal punto di vista critico, presenta due facce del Modernismo coreano. In che modo tu e il tuo gruppo avete costruito ed elaborato la ricerca complessiva e integrato i vari aspetti del percorso modernista? Da dove siete partiti e qual è il percorso di ricerca del padiglione?

Minsuk Cho: il tema “Absorbing Modernity 1914-2014” è stato per me un filo conduttore molto chiaro riguardo al Modernismo coreano: non doveva essere una storia a metà ma la storia intera di una penisola divisa. Quando sono stato nominato commissario, l’intenzione in un primo momento era di realizzare la mostra in collaborazione con gli architetti della Corea del Nord, cosa che poi si è rivelata impossibile, dopo aver passato la maggior parte dell’anno scorso a cercare di stabilire un dialogo con loro. Ho dovuto pensare parallelamente a un piano di riserva, dato che c’era solo una minima probabilità di raggiungere l’obiettivo iniziale per parecchi motivi – come le circostanze politiche e così via – che vanno oltre la nostra portata. Così la mostra di oggi è il risultato del piano di riserva. È interessante che certe persone conosciute nella nostra ricerca di contatti con architetti nordcoreani – come Dongwoo Yim, architetto canadese-coreano che lavora a Boston, che ci ha messo in contatto con la rappresentanza all’ONU della Repubblica Popolare Democratica di Corea – siano poi entrati a far parte della mostra.

Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Insomma: il nostro percorso di curatori, nell’oscillazione tra le due possibilità, è stato abbastanza fluido. Ne è un altro esempio l’incontro con l’ambasciatore italiano a Seul, quando la scorsa estate cercammo di far arrivare il nostro bigliettino sentimentale agli architetti nordcoreani dell’Accademia d’Architettura Paektusan. L’ambasciatore ci mostrò il libro del fotografo Alessandro Belgiojoso, dove si raccontava del suo lavoro su vari paesaggi urbani della Corea del Nord e del Sud, che poi è diventato parte significativa della mostra. Insomma, direi che la ricerca si è svolta in generale lungo due direttrici: una consistente nel collegare un punto all’altro, l’altra nel dare legittimità curatoriale ai rapporti tra i punti. Un percorso dinamico e appassionante che ha creato una rete tra i professionisti che hanno lavorato sui temi dell’architettura tanto nella Corea del Nord quanto nella Corea del Sud. Ne abbiano contattati individualmente parecchi, a mano a mano che lungo il percorso scoprivamo il loro lavoro. Certi li abbiamo incontrati per la prima volta a Venezia. Avere con noi i professori Hyungmin Pai e Changmo Ahn in qualità di storici e critici dell’architettura ha dato una solida base al nostro lavoro di curatori, creando dei punti di riferimento critici che sono il filo conduttore della narrazione.
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula

Pelin Tan: Quale parte ha avuto l’‘utopia’ nella prassi dell’architettura coreana del passato? Qual è il suo rapporto con la costituzione del paese e come si collega alle varie rappresentazioni del potere nella penisola coreana di oggi?

Minsuk Cho: La condizione coreana di tabula rasa, dovuta alle terribili distruzioni della guerra di Corea, ha fatto da sfondo a uno sviluppo radicalmente orientato alla polarizzazione ideologica: socialismo e capitalismo. Se si considera l’architettura come un meccanismo di speranza e di desiderio i progetti di ispirazione statale sono rappresentazioni di questa aspirazione in termini di Stato nazionale.

A Pyongyang fu progettata una nuova città ispirata alla più pura ideologia socialista: si sa che l’architetto cui si deve il piano regolatore (1950-53) fu Kim Jeong-hui. A Seul invece il tentativo fu abbastanza frammentario e occasionale, ma comunque, ogni volta che una tendenza trovava spazio nell’edificazione della metropoli capitalista, si prefiggeva l’ambizione di cambiare la città intera. Ne è esempio il Sewoon Sangga (1968) di Kim Swoo Geun, una prova brillante che creò un nuovo asse attraverso la città. Nonostante le divergenze politiche abbiamo scoperto che a volte questi progetti a gestione statale, in entrambe le Coree, avevano in comune certi fattori di modernizzazione dell’architettura tradizionale, soprattutto negli anni Settanta.

Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
A Pyongyang questi fattori erano destinati a rendere l’ambiente urbano più accogliente per gli abitanti, mentre a Seul, sostengono alcuni, era in gran parte questione di rivalità con il Nord. Oggi i problemi nelle due Coree sono piuttosto diversi: con il nuovo, giovane capo e con l’esigenza pressante di aprirsi al mondo esterno, sento dire che la Corea del Nord inizia a dare importanza significativa alla trasformazione della città in quanto ambiente contemporaneo, con il cosiddetto “standard mondiale”. È un buon segno per un architetto come me? Non ne sono sicuro.

Pelin Tan: Quale posizione critica prendi, tu in quanto architetto e con il tuo studio, di fronte alla grande architettura spettacolare, soprattutto a Seul?

Minsuk Cho: Realizziamo spesso edifici che spesso – diciamo così – non sono necessariamente spettacolari ma si fondono nel contesto. Se la situazione richiede un intervento spettacolare cerchiamo di dimostrare la possibilità di attirare l’attenzione. È stato in particolare il caso di nostri progetti come il Four Courtyard o lo Skipped Matrix Building, e così via. Se la città fosse un film ci sarebbero delle inquadrature per i protagonisti ma anche per i comprimari, che sono stupendi per la bravura nella recitazione. Preferirei essere Philip Seymour Hoffman piuttosto che Tom Cruise.

Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula

Pelin Tan: Parlaci della tua attività di curatore, soprattutto a proposito della Biennale del design di Gwangju, una manifestazione splendida. Come intendi l’attività di curatore oggi, in quanto strumento critico della prassi architettonica contemporanea?

Minsuk Cho: Non faccio il curatore di professione: la Biennale di Venezia è solo un’attività parallela. Ma la mostra “Crow’s Eye View” per me ha avuto un grande significato, perché abbiamo volutamente tentato di fare del padiglione della Corea una specie di elemento attivo che dà vita a una realtà nuova. E poi credo che fosse molto particolare, nel senso del suo intrinseco carattere collettivo – diciamo del cameratismo – nel suo creare una rete di persone che potenzialmente superavano i confini. È il motivo per cui durante la cerimonia di premiazione ho voluto far salire sul palco tutti i membri del gruppo.

Realizzare una mostra tende a diventare un’impresa collettiva, il che richiede oltre a tutto una quantità incredibile di trattative. Nel caso della Biennale di Gwangju ho curato in collaborazione con Anthony Fontenote la mostra sul “design d’autore”, e anche lì c’era un doppio binario: design d’autore e design anonimo. Non l’abbiamo considerata una distinzione inevitabile, ma piuttosto un contesto su cui giocare. Il diagramma che abbiamo disegnato per distinguere il design che può essere considerato “conosciuto/di marca/celebre” dal design “anonimo” ha prodotto un grafico abbastanza confuso, i cui nodi sono sparsi per tutto il campo. Il professor Hyungmin Pai, uno dei nostri curatori, ha detto che certi temi del campo dell’architettura si potevano rappresentare e/o concretizzare solo in forma di mostra. Crow’s Eye View non avrebbe potuto esistere in forma di libro, ma la particolare internazionalità della Biennale di Venezia ha permesso di prendere queste decisioni audaci.

Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula

Pelin Tan: Le opere di Yehre Suh e Dongsei Kim presenti nel padiglione si aprono alle frontiere, soprattutto alla negoziazione della frontiera e del controllo: pensi che questi fattori siano parte dei fondamenti dell’architettura di oggi?

Minsuk Cho: Credo che l’idea di frontiera sia un territorio interessante. Come dimostra l’opera di Yehre Suh e di Dongsei Kim, come quella di altri lavori della sezione dedicata alla Frontiera, non si tratta mai di una semplice linea su una mappa, ma di un territorio spaziale che crea rapporti complessi. Al di là dello strettissimo controllo militare, nella Zona demilitarizzata coreana ci sono evidenti esempi di trasgressione e di permeabilità. Non direi che l’idea di controllo e di sicurezza sia un elemento fondamentale dell’architettura contemporanea, ma forse se ne potrebbero sottolineare le conseguenze lacaniane. La ricerca di MOTElastico rivela vari generi di queste attività urbane a scala microscopica, talvolta ai limiti della legalità, descritte come gesti di “presa in prestito” della città.

© riproduzione riservata
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Vista del padiglione della Corea: Crow’s Eye View: The Korean Peninsula

COREA, Repubblica di
Crow’s Eye View: The Korean Peninsula
Commissario/Curatore
: Minsuk Cho
Curatori: Hyungmin Pai, Changmo Ahn
Curatore Aggiunto: Jihoi Lee
Sede:
Padiglione ai Giardini

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