Chalet Hollywood

Situato a Hollywood in un ex magazzino, lo Chalet – opera dell’artista concettuale Piero Golia e dell’architetto Edwin Chan – è il distillato della coreografia sociale di Los Angeles, ma al contempo ricalca gesti e caratteri fisici di uno spazio sociale pubblico controcorrente.

Scrivere dello Chalet è forse ancora prematuro. Per ora dello Chalet si parla sottovoce, come di una diceria, o lo si descrive senza troppa precisione, come dopo aver bevuto un po’. “Fàmmiti dire una cosa.”
A distanza di anni, però, quando lo Chalet sarà una raccolta di ricordi nebulosi e di tremende esagerazioni, se ne potrà scrivere nei libri di storia dell’arte e nei romanzi per appassionati d’arte. Un futuro ‘mitico’ pare inscritto nel progetto stesso dello Chalet. Ma che ne so, io? Gli sono ancora troppo vicina, per il momento.
The Chalet
L'acquario di Pierre Huyghe allo Chalet. Photo Joshua White
Prima ancora che si aprisse – non proprio al pubblico e non precisamente al privato – già se ne parlava, dello Chalet, con il genere di termini approssimativi che viaggiano tra telefoni mal funzionanti. L’ambiguità (o la spontaneità, la duttilità) della sua atmosfera e del suo senso, insieme con la precisione del suo progetto, danno allo Chalet il respiro e la pulsazione di un succoso segreto raccontato in un pettegolezzo.
Ma per stare in tema, ora come ora, che cos’è lo Chalet? In un opuscolo che circolava ben prima che l’insegna “Aperto” venisse accesa, lo spazio si allineava in via preliminare con “leggendari salotti quali la corte rinascimentale di Lorenzo de’ Medici e l’appartamento parigino di Gertrude Stein”. Un bel necrologio scritto al momento del concepimento. Una classifica che si rifà all’olimpo dell’arte ma richiama anche i semplici, mortali temi della socializzazione, dell’appartenenza e della curiosità. Lo Chalet è anche un’esperienza tattile dotata di una forte presenza fisica, un elegante primo piano più che uno sfondo per gli eventi che vi hanno luogo.
The Chalet
Photo Joshua White
Più esplicitamente però lo Chalet è un capolavoro concepito dall’artista Piero Golia e progettato nella più stretta delle collaborazioni con l’architetto Edwin Chan per oltre tre anni. “Due fallimenti dopo”, come mi confida Golia, lo Chalet ha aperto i battenti nello scorso settembre. Le porte resteranno aperte per un anno, con serate settimanali esclusivamente per inviti. Dopo di che il futuro dello Chalet rimane in balia del fato, o forse della benevolenza dei mecenati. La speranza di Golia è che qualcuno voglia continuare il lavoro dello Chalet quando lui non se lo potrà più permettere.
Finché è ancora suo, Golia usa lo Chalet per riunire regolarmente un gran numero di persone diverse (artisti, scrittori, critici, attori, designer, collezionisti, architetti, amici, falsi amici, politici) in occasione di manifestazioni di vario genere (cene in piedi, concerti corali, serate a cura di artisti o artistoidi, esibizioni di danza e altre occasioni teatrali). Gli ospiti dello Chalet di solito si ritrovano in mezzo a qualche faccia familiare e a parecchie facce estranee, in un’atmosfera diversa da quante ne abbiano mai sperimentate. Non proprio una festa privata, non proprio l’inaugurazione di una mostra in una galleria, e neppure un palcoscenico con la relativa platea.
The Chalet
Piero Golia. Photo Alexei Tylevich

Nello Chalet, situato in un ex magazzino, dietro a un edificio di Hollywood, si entra da una comune porta di servizio. Lo Chalet è il distillato della coreografia sociale della città che lo ospita: la Los Angeles in, dove il posto in cui bisogna assolutamente essere è la lista degli ospiti di una festa privata. Oppure la strada per andare a una festa privata in un’auto privata. Lo Chalet porta tutti i segni dello spazio privato, o esclusivo, o underground. Ma contemporaneamente ricalca certi gesti e certi caratteri fisici, per dire, di uno châlet svizzero, di uno spazio sociale pubblico controcorrente rispetto a come è solita incrociarsi la gente a Los Angeles.

Allo Chalet non c’è l’ora di chiusura del bar, non ci sono riflettori che tagliano l’aria. Nelle serate in cui ci sono stata non c’era il buttafuori alla porta. Già sapere come ci si arriva – attraverso un parcheggio all’aperto incastrato tra viali oscuri e strade secondarie – è una prova del fatto che si sia o meno i benvenuti. Lo Chalet è situato immediatamente dietro il Walk of Stars, il “viale delle celebrità” di Hollywood, tra le sue ombre oscure. Los Angeles non possiede un vero e proprio quartiere a luci rosse, in cui i turisti passeggiano con un senso di sicurezza e di volgarità contemporaneamente, ma questa zona di Hollywood favorisce lo stesso tipo di malsano turismo. È un’illusione di effimera audacia, forse. Si entra allo Chalet e si trova l’antitesi: la fantasia di qualcosa di sacro e di durevole fatta realtà.
The Chalet
Edwin Chan. Photo Alexei Tylevich
Lo Chalet, nonostante il suo dichiarato carattere temporaneo in quanto ambiente costruito, dà una sensazione di ricchezza, di solidità e di permanenza. Il rovere chiaro, riciclato da un bosco della Pennsylvania, risolve la sistemazione delle sedute mobili, che possono aprirsi o riunirsi, secondo la gestualità sociale degli ospiti che le usano. Il rovere chiaro pende anche dal soffitto, nella forma dei raffinati lampadari di Chan; e racchiude anche i contenitori lungo il percorso principale, dove sono collocati i liquori di certi ospiti di riguardo, compresi alcuni di coloro che hanno contribuito a finanziare lo Chalet. Chan definisce il rovere un’alternativa al douglas più facile da trovare (e da usare) in California. Golia ne parla come della “migliore maledetta spesa della mia vita”. Chan sottolinea che il rovere chiaro “è stato una scelta giusta. Valeva assolutamente la pena”, non da ultimo quella di attenderne la consegna per sei mesi.
Superfici riflettenti d’alluminio in tutto l’interno e dentro gli scaffali (certi restano aperti, creando un motivo decorativo dinamico) fanno sì che lo Chalet brilli senza l’ovvio uso di specchi. Anzi, lo spazio riecheggia visivamente una visione di se stesso più distorta e sfocata. Un acquario di Pierre Huyghe è il punto focale dello ‘spazio privato’ annunciato da spesse pareti rivestite di compensato finlandese verde scuro. Nella sala adiacente, visibile attraverso una ‘finestra’ interna, pareti blu imperiale incorniciano un pianoforte, proveniente dalla Kunstakademie di Düsseldorf, prestito dell’artista Christopher Williams (Golia crede che una volta Joseph Beuys abbia suonato su questo strumento). Alle pareti di questo anfiteatro azzurro è appeso anche un quadro di Mark Grotjahn. Nel corridoio una fotografia di Jeff Wall. Ma invece di esporre queste opere lo Chalet le ingoia di volta in volta come le sabbie mobili; e pare che non ci sia altro luogo dove queste opere potrebbero stare, con un tono che ricorda più una collezione privata che un museo.
Lo Chalet è la negazione di parecchie formule progettuali della California meridionale: niente patio, niente lucernari, niente rapporto interno-esterno. Lo Chalet è decisamente introverso, un bozzolo, perpetuamente nell’ora magica che sta tra crepuscolo e tenebra. Parla delle scelte che fa per costruire un luogo altrimenti dominato dall’impulso. Nell’architettura come nell’impianto concettuale ci sono deliberate incertezze quanto particolari ossessivamente perfetti.
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Photo Joshua White

“Qui tutti i materiali hanno una storia e una funzione’, racconta Golia mentre stiamo seduti allo Chalet, il pomeriggio di qualche giorno fa. “Per questo la considero un’architettura molto classica. I materiali sono stati scelti umanamente ed emotivamente per una determinata ragione. Pensa all’intonaco azzurro dell’anfiteatro: viene dalla necessità di isolamento e di acustica, applicato non come decorazione, ma puro e semplice. Però è anche molto bello e ha una tattilità sorprendente. Lo Chalet è architettura da toccare.”

Ho conosciuto Golia e Chan più di un anno fa allo Chalet, quando era ancora un cantiere. Nella conversazione si parlò della Cappella Sistina come esempio di ciò che lo Chalet avrebbe potuto essere. Nella nostra conversazione di oggi l’espressione “Cappella Sistina” mi scappa ancora di bocca, mentre formulo una domanda. “Oh mamma mia”, esclama Golia prima che finisca. “Dovevi proprio partire con l’idea che Edwin odia di più!”

Edwin Chan: Non è che odio l’idea, mi sento solo nervoso quando lo dici a voce alta. Ci vado piano a dire di aver progettato un capolavoro. Ho imparato che è meglio fare semplicemente “un progetto”, senza aspettarsi che diventi la Cappella Sistina, e a lasciare che il progetto si sviluppi in qualcosa di più grande.

Piero Golia: Però la Cappella Sistina, Versailles, il Colosseo sono tutti esempi molto elementari, tecnici. Non significa che io voglia costruire qualcosa di ‘famoso’. Voglio solo parlare di un genere di architettura che non è contemporaneo. Quando costruisci la cappella Sistina o Versailles non pensi mai di tirarti indietro, no? Lo scopo è costruire qualcosa che piaccia alla gente, senza pensare a quanto economicamente stupida sarà l’operazione per te. Credo che sia proprio quello che abbiamo fatto qui. Abbiamo costruito un luogo senza altra ragione che quella di dare qualcosa di bello alle persone, qualcosa da godere, che le facesse felici.

The Chalet
Edwin Chan e Piero Golia. Photo Alexei Tylevich

EC: Dal primo momento in cui abbiamo iniziato a parlare dello Chalet ho capito che doveva essere un cosa fatta per passione. Non si possono fare progetti di questo genere senza il genere di passione che descrive Piero. Non c’è altro modo di realizzare una cosa così.

PG: Volevo lavorare con un architetto che tenesse più alle persone che alle teorie. Per me era molto importante che qui la gente si trovasse bene, che poi mi dicessero: “È una cosa stupenda”. Un artista non basta per raggiungere questo risultato. L’architettura è quel che mette insieme tutto, quel che ci circonda. Tutto quel che si tocca in questo posto dà una bella sensazione.

Lo Chalet è strettamente specifico a Los Angeles oppure pensate che lo si possa trasferire altrove?

PG: Quando abbiamo iniziato pensavo che lo Chalet doveva essere profondamente legato a Los Angeles: un ambiente che avrebbe reso facile riunire attori e grandi artisti, per esempio. Qui queste persone sono a portata di mano. In qualunque altro posto dar loro un motivo per uscir di casa diventa più difficile. Se avessi collocato lo Chalet in cima a una montagna tibetana, per esempio, sarei stato costretto prima di tutto a portare le persone in Tibet, poi su per la montagna, e solo allora avrebbero potuto entrare nello Chalet.

EC: A me qualche volta càpita.

PG: Insomma, mi rendo conto sempre più che le persone, per la ragione giusta, andrebbero in capo al mondo. E quindi sì, oggi credo di poter rispondere che si tratta di un modello esportabile.

The Chalet
Piero Golia ed Edwin Chan. Photo Alexei Tylevich

Avete fatto caso a come le persone considerano lo Chalet? Come un’opera d’arte da non toccare o magari come un ampliamento di casa loro?

PG: Ho notato che ci è voluto un po’. Le prime sere la gente arrivava e girava per un’ora prima di sedersi, Poi, a poco a poco, si sono fatti più audaci e si sono resi conto che potevano lasciarsi andare e toccare davvero lo spazio, sedercisi dentro. Dopo una manifestazione ho ricevuto un messaggio commovente da Simone Forti [mitica danzatrice e coreografa] che diceva: “Di solito vado in un posto, non conosco nessuno e siccome sono timida, finisco in un angolo con un bicchiere di vino bianco in mano. Ma ieri sera allo Chalet ho chiacchierato tutto il tempo con gli altri. Credo che fosse lo spazio. Altrimenti me ne sarei rimasta nel mio angolo”. Insomma non è un locale, non è una casa di vacanza o uno spazio da performance. Non c’è una linea di demarcazione netta tra gli spazi interni. Non c’è una regola predominante su come sedersi o su come comportarsi.

EC: Parecchie delle cose che abbiamo fatto qui erano dei grandi rischi, per via di questa idea: tutti questi elementi di legno, tutte queste panche di legno. Non sapevo quali reazioni avrebbero avuto le persone, ma sono felice di constatare che, fino a oggi, hanno accettato tutti i nostri rischi. Certi ospiti sono abituati a un’idea diversa della comodità: magari in un primo tempo non vogliono sedersi in un ambiente di questo genere. Ma alla fine la materialità del luogo ha spinto le persone a partecipare e a impegnarsi reciprocamente come altrimenti non avrebbero mai fatto. L’aspetto fisico, tattile dello Chalet è un esperimento sorprendente e pare che funzioni.

PG: Faccio spesso una spesa immaginaria. Compro architetture, compro automobili. Vado a vederle e rifletto se siano o meno un buon investimento. L’unica cosa che non ho sono i soldi per comprarle. Oggi mi stavo ‘comprando’ una casa di Frank Lloyd Wright. Sono un patito di Frank Lloyd Wright. Mi piace proprio la sensazione di architettura ‘completa’. Ma poi mi sono reso conto di una cosa: Frank Lloyd Wright progettava per persone che sapevano esattamente quanti ospiti avrebbero avuto a cena. Un numero che è fissato nell’architettura. Le sedute hanno un’impostazione ben definita. Non ci si possono pigiare altre persone in più e non se ne possono invitare solo due senza rendere evidente che hai fatto una sciocchezza.

La bellezza dello Chalet è che il posto funziona con cinque, dieci, venti o cinquanta persone. È aperto a una reinterpretazione completa. Si può starsene seduti a parlare con una sola persona per tutta la sera o si può andare in giro e far parte di un grande gruppo. La modularità è perfetta. E non conta che sia mezzanotte o siano le undici del mattino: nello Chalet ci sono delle sacche che proteggono dalla percezione di quel che non vogliamo sapere. Il posto dà la sensazione della vitalità.

Sapete, certe volte il brutto dell’architettura è quando ci si accorge che qualcuno ha messo dei fiori nel vaso. Edwin ha capito esattamente quel che volevo dire con questo. È il motivo per cui qui, quando tutto è al suo posto, lo si capisce perché è come Dio lo ha voluto.

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