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Le Corbusier e New York

Le Corbusier/New York è stato annunciato come un convegno internazionale di due giornate incentrato sul rapporto dell’architetto con la città e ha visto la presenza di luminari del settore come Jean-Louis Cohen, Kenneth Frampton, Peter Eisenman, Stanislaus von Moos e Mary McLeod, insieme con una schiera di critici e di storici di minore risonanza. 
Organizzata dal Center for Architecture in collaborazione con il Museum of Modern Art, la manifestazione si è tenuta nell’ex sede cittadina dell’istituto in occasione della più recente mostra in programma: Le Corbusier: An Atlas of Modern Landscapes. Barry Bergdoll, direttore del settore architettura e design del MoMA, è stato presente come moderatore di varie tavole rotonde. Con un cartellone simile  lo spazio è stato, com’era prevedibile, affollato all’inverosimile. In totale al convegno hanno partecipato circa duecento persone.
Sotto il cappello generale del rapporto di Le Corbusier con New York, la qualità degli interventi è stata assai varia. La prima sessione ha ospitato documenti di carattere decisamente più accademico, addirittura erudito. Tra questi interventi di venti minuti (ma spesso hanno sforato), quello di Mardges Bacon, intitolato On the Streets of the Vertical City: Le Corbusier in New York, 1935, è stato forse il più convincente. Con ogni probabilità ciò era dovuto alla fedeltà alla documentazione storica della visita che fisicamente Le Corbusier compì quell’anno alla città, anziché alle elucubrazioni sulle impressioni che concettualmente – o in astratto – la città può avere esercitato su di lui.
Bacon ha illustrato con attenzione le ambivalenti impressioni di New York vissute dall’architetto quando per la prima volta la visitò di persona, senza doversi più limitare alle descrizioni visive o ai documenti fotografici altrui. Ha illustrato l’ammirazione del grande modernista di fronte alla spiccata verticalità di Manhattan e la sua profonda ammirazione per l’uso, nei grattacieli, dei materiali e delle tecniche più recenti. Secondo l’opinione di Le Corbusier la vera tragedia stava nel fatto che questi metodi moderni erano costretti ad adattarsi alla cornice di regolamenti urbanistici tanto antiquati.
A differenza di Bacon, che si è fondata soprattutto sui diari personali tenuti da Corbu e sulle lettere inviate nel corso del suo soggiorno newyorchese, von Moos ha adottato come spunto del suo intervento il saggio Quando le cattedrali erano bianche, scritto nello stesso periodo. Ma, a nostra delusione, il discorso del teorico svizzero (persona solitamente coerente) si è rivelato al paragone piuttosto debole. Mentre lo scopo dell’intervento era sostenere esplicitamente l’esistenza di un sotterraneo filone surrealista nell’esperienza newyorchese di Le Corbusier, von Moos ha tagliato le gambe alla sua argomentazione praticamente prima di cominciare. (Vistosamente assenti dall’intervento di von Moos sono state le strategie surrealiste usate da Koolhaas per dissezionare l’apprezzamento e l’impegno di Le Corbusier nei riguardi di New York.
Da subito von Moos ha negato qualunque collegamento tra l’architetto e il movimento postdadaista francese. Invece la sua affermazione va considerata assai più modesta, se non del tutto irrilevante per il tema del convegno. Alla fine dell’intervento di von Moos è stato chiaro che tutto ciò che si poteva accertare era una specie di vaga affinità stilistica tra gli scritti dei surrealisti e la prosa di Le Corbusier. Il precedente intervento di Francesco Passanti, A New York with Intention, è apparso altrettanto lontano dal tema. Benché l’intervento fosse piuttosto interessante dal punto di vista esegetico, dato che trattava della lettura di Wright, Taut e Perret da parte di Le Corbusier, la città non è entrata per nulla nell’inquadratura, se non per il modello negativo in contrapposizione al quale venne formulato il Plan Voisin di Parigi. E per di più l’intervento si è concluso con la consueta, ormai rituale, critica dell’urbanistica modernista (del tipo della Ville contemporaine) in quanto intrinsecamente totalitaria e incapace di adeguarsi al disordine della vita. Che barba.
La sessione di interventi che ha fatto seguito alla sortita di von Moos sugli stilemi surrealisti di Quando le cattedrali erano bianche è stata al contrario gradevolmente scevra da stravaganze teoriche. Come c’era da attendersi l’intervento di Cohen sulle alterne vicende dei rapporti di Le Corbusier con il Museum of Modern Art ha fatto la parte del leone. Qui non ci si è attardati sulle implicazioni della propria ricerca sulla futura fortuna accademica di Corbu; Cohen si è anzi accontentato di citare sommariamente le numerose discussioni sorte nel corso del tempo tra l’architetto e il museo, a mano a mano che il maestro franco-svizzero si faceva sempre più impaziente riguardo a ciò che riteneva una valutazione inadeguata del suo contributo alla disciplina.
L’esposizione di Cohen ne è risultata tanto più vivacemente accattivante, seguendo passo passo le minime controversie che Le Corbusier suscitava in reazione a ciò che gli pareva trascuratezza o scarsa considerazione nei suoi confronti. Le osservazioni di Eisenman hanno continuato su questo tono meno ufficiale, costeggiando l’autobiografia nelle riflessioni sull’influsso di Le Corbusier sui cosiddetti New York Five (di cui, s’intende, Eisenman faceva parte). Ancora più direttamente Eisenman ha voluto citare nelle sue osservazioni il significato della nuova mostra del MoMA, concedendole un incondizionato patrocinio. Le parole di approvazione di Eisenman, venendo da un uomo da qualche tempo poco incline agli entusiasmi, hanno certamente sorpreso parecchi dei presenti, abituati al suo carattere solitamente rigido.
Detto ciò Le Corbusier/New York, quanto ai risultati intellettuali che ha prodotto, è stato una specie di piatto misto. Vi si è trattato pochissimo terreno teorico nuovo, e vecchie interpretazioni sono state rimasticate o rielaborate in modi privo d’interesse. Solo qualche informazione gustosa è emersa grazie alla magistrale esplorazione archivistica di Cohen, ma anche sotto questo aspetto non c’è stato nulla che rappresentasse una scoperta in grado di rovesciare un paradigma.
Tuttavia, nonostante la presenza di queste pecche, che potrebbero esser dovute a difetti nell’ideazione del convegno, il suo frutto importante non è stata la conclusione che gli studi su Le Corbusier siano in qualche modo proseguiti per la solita strada. E i difetti del convegno non dovrebbero neanch’essi indurre a pensare che oggi – all’alba del nuovo millennio, di fronte a un complesso di situazioni critiche dal punto di vista sociopolitico e tecnologico estranee di per sé agli architetti – che l’opera architettonica di Le Corbusier sia in conclusione da ritenere irrilevante. Come Frampton ha osservato nei suoi incisivi (per quanto poco ufficiali) commenti finali “con questo personaggio non la faremo mai finita”.
A rafforzare la sua affermazione ha citato il sostanziale dualismo che caratterizza la teoria e il personaggio di Le Corbusier. Secondo Frampton  Corbu fu contemporaneamente architetto e artista, profeta ed eretico, tecnocrate e umanista. In modo analogo i suoi progetti seguivano traiettorie duplici. Una delle riflessioni più convincenti nei lavori del convegno è stata la descrizione da parte di Frampton delle tensioni ideologiche che informavano l’opera di Le Corbusier, particolarmente evidenti nei suoi audaci schemi urbanistici. Qui, ha spiegato Frampton, forma e contenuto erano impigliati nelle opposte polarità del capitalismo e del socialismo. I primi progetti, il Plan Voisin e la Ville contemporaine, furono monumenti alla prima di queste prospettive epocali, mentre la più tarda Ville radieuse e il suo più fondamentale modulo edilizio, L’Unité d’habitation, furono la materializzazione del secondo. L’Unité, per lo meno come fu realizzata a Marsiglia, fu la madre di tutti i palazzi residenziali collettivisti, da allora additati da filistei e da reazionari come la dimostrazione dei “mali” dell’urbanistica del dopoguerra.
Rifiutando queste critiche, vaga eco di quanto si era si era potuto udire in alcuni degli interventi precedenti della giornata, Frampton ha sottolineato il fallimento delle condanne moralistiche in architettura. Sostenere che l’Unité di Le Corbusier conduce direttamente al Pruitt Igoe di Yamasaki è “completamente assurdo”, ha affermato Frampton senza se senza ma, e ha invece raccomandato una prospettiva maggiormente diacronica nelle ambizioni di collocazione del Modernismo. Usando parole di Cohen Frampton ha definito questa prospettiva “stratigrafia culturale”.
Purtroppo l’allarme è scattato un po’ troppo tardi. E tuttavia il convegno ha avuto i suoi meriti. Molte delle frustrazioni ricordate in questa sede possono tranquillamente essere addossate alla tematica eccessivamente circoscritta del rapporto di Le Corbusier con la città, il quale, per quanto riferimento costante  nelle prime opere, rimase relativamente distante e astratto (come “paradosso e contraddizione”) fino alla visita a New York della metà degli anni Trenta. È tutto quanto si può trarre da questi pochi sporadici incontri, se si esclude la concreta interazione dell’architetto con l’ambiente della città, in quel momento come nel suo più tardo lavoro per il palazzo delle Nazioni Unite degli anni Cinquanta. Chiarire il preciso ruolo dell’immagine della città in gioco negli scritti più giovanili dell’architetto è una cosa; dilungarsi su di esso è un’altra. Non si possono certo biasimare alcuni degli oratori per aver gonfiato qui lo scarso materiale disponibile oltre i limiti della coerenza e del credibile. E tuttavia, nel primo convegno di così ampie dimensioni che si sia tenuto da decenni, Le Corbusier meritava di più. Per chi nella comunità newyorchese dell’architettura si sente vagamente a bocca asciutta, però, non tutto è perduto: dopo tutto la mostra di Corbu al MoMA – attualmente aperta al pubblico – copre ogni sfaccettatura della leggendaria carriera di questo modernista. E per tutti coloro che ne erano in attesa, ora la manifestazione è a portata di mano.

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