Kazuyo Sejima: Inujima Art House Project

Sulla conturbante isola di Inujima, Kazuyo Sejima crea un parco naturale-artificiale, impregnato di arte-architettura come storia e futuro della condizione umana, all'utopica ricerca di un equilibrio ambientale.

Dicono che esista il mal d'Africa: ma in Africa non sono mai stato, né ho tanta voglia di andare. Già molti e molti anni fa, invece, mi è capitato di arrivare a Tokyo, invitato dai miei amici Miyuki Yajima e Sergio Calatroni. Dev'essere allora che mi sono preso il mal del Giappone, che da allora non passa più: qualcosa che assomiglia contemporaneamente alla nostalgia per la poesia, insieme morbida e dura, di città immense nel mezzo del nulla; qualcosa che ha a che fare con l'illusione adulta, sempre più debole, di poter costruire sistemi di segni estetici intelleggibili anche senza tutte le complicazioni della lingua parlata o scritta, per definizione incomprensibile a chi non sia nato con e dentro di essa.

Anche volendo tralasciare altri sintomi di questa nostalgia japonica (come, per esempio, tentativi di ricreare nello scrivere e nel disegnare equilibri semplici di forma e contenuto, di esprimersi liberamente nella scia di una tradizione etica e morale fortissima o semplicemente appassionarsi alla qualità di un cibo crudo, di un riflesso di luce su una superficie dorata, del gesto di una mano), mi rimane chiaro nella memoria l'impressione del primo studio di Sejima, che Miyuki e Sergio mi portarono a vedere con lunghi viaggi in metropolitana.

In mezzo a decine e decine di modelli, sotto un soffitto quasi troppo basso, Sejima-san trovò il tempo (poco) e lo spazio (anche meno, ricavato temporaneamente su uno dei tavoli già molto affollati dello studio) per conversare una prima volta sul suo lavoro: che non conoscevo bene, ma mi incuriosiva per la sua strana combinazione di inespressionismo alla Archizoom e/o Superstudio e cedimenti alla tentazione pop. Già allora l'impressione che faceva Sejima-san era di una donna estremamente compresa dal suo lavoro di architetto, o meglio di un architetto che avesse già molto chiari in mente (misteriosamente, per un'epoca di confusione intellettuale già quattordici anni fa molto fuorviante), gli obiettivi da raggiungere come concrete costruzioni, per quantità, qualità, esperienza possibile ai loro abitanti.

Da allora il tempo passato non è passato per Sejima- san, che continua a fumare e a sorridere: un po' più sorridere che fumare, forse, adesso che ha costruito edifici che molti altri avrebbero probabilmente voluto creare, senza esserne capaci – e che ho avuto in qualche caso la possibilità di vedere, come il centro De Kunstlinie ad Almere, dove ho sentito che Sejima-san e Ryue Nishizawa (alleati di ferro nella sigla SANAA) avrebbero presto sostituito altri, e più confusi, nomi dell'architettura nella capacità di tradurre in spazi veri la difficile condizione contemporanea.

Così la nuova impressione che ho avuto, arrivato a Inujima dopo un viaggio quasi iniziatico (che comprende un lungo tragitto in Shinkansen da Tokyo a Okayama, poi un lentissimo tratto in taxi fino a Hoden, da dove una barchetta a motore porta finalmente all'isola misteriosa), è stata che, per qualche triangolazione astrale, convergesse su questo territorio piccolissimo – abitato solo dalla meravigliosa rovina industriale di Seirensho (una specie di Partenone o Foro Romano dell'era industriale asiatica) e poche decine di abitanti che resistono al gelo d'inverno e all'afa d'estate – la possibilità di mettere in scena una sorta di rappresentazione di come avrebbe potuto essere /o rimanere il Giappone. È una rappresentazione che, un tempo, si sarebbe detta sacra (ma oggi conviene più semplicemente dire artistica) visto che coinvolge l'antichità del vivere su quest'isola (come nei due padiglioni F-Art House e I-Art House), le necessità di un'esperienza senza tempo (nella cupola in alluminio su pilotis esilissimi), il senso del contemporaneo (nel piccolo padiglione interamente in metacrilato).

Con questa stessa rappresentazione, nell'inutile polemica che coinvolge architetti e artisti (ma più che loro stessi, i commentatori di professione) su chi dovrebbe aver la meglio nella configurazione finale degli spazi per l'arte, mi sembra che Sejima dimostri una ovvia superiorità dell'architettura sull'arte: o meglio, su qualunque faticosa installazione d'arte che andrà a posizionarsi dentro questi spazi da lei creati. Perché l'esperienza di spazio e di senso che essi consentono, anche vuoti, anche non finiti, è già di per sé una forma di esperienza estetica. Così la cupola in alluminio, pensata da Sejima come riparo dal sole e dalla calura di un estate che qui è ancora vera, è anche un grande strumento musicale, se si prova a colpirla anche solo leggermente con la mano, con un suono che rimanda a un possibile mondo senza elettricità, Tv, Internet, iPod, iPhone, iPad… dove valgono solo la figura umana e i sensi in sua dotazione originale.

Così l'edificio più astratto di tutti, il solido curvo in metacrilato trasparente che si alza per ora solitario tra una casa e l'altra del villaggio, in attesa di essere riempito di una qualche opera, è già in sé opera: omaggio alla popolazione che resiste sull'isola, ricordo di quella che ha dovuto cedere alla tentazione di lasciarla (ma di cui si percepisce ancora la presenza, magari nelle vecchie case ormai disabitate), piccolo monumento non retorico alla tecnica e al suo futuro, che forse prevede un pianeta interamente disabitato – ad esempio, se i cataclismi ambientali generati dai cambiamenti climatici ormai evidenti non saranno considerati come regola, e non come eccezione.

Se così fosse (come bene racconta lo scrittore Alan Weisman nel suo istruttivo libro Il mondo senza di noi1) anche il padiglione S-Art House potrebbe rimanere in piedi per sempre, o perlomeno per molte migliaia di anni vista la natura praticamente immortale del metacrilato che lo costituisce, a raccontare un brevissimo momento di coscienza nella storia dell'arte umana: quello che ha fatto immaginare al mecenate Soichiro Fukutake, alla curatrice Yuko Hasegawa e, ovviamente, all'architetto Kazuyo Sejima, che la costruzione di un equilibrio tra spazio, arte e ambiente 'naturale' fosse possibile proprio qui, in un luogo lontano dal mondo, dove rarissime sono le persone da incontrare, sotto un cielo color Ipomea Violacea che a giugno – mentre in Italia continuavano la pioggia e il gelo dell'inverno – sopra il mare dove giocavano cormorani e pesci volanti, faceva pensare di essere non molto lontani dalle porte del Paradiso.

Per ora, continuiamo a vivere sulla Terra, magari solo per questi rari momenti di felicità – quasi sempre purtroppo qui consentiti da circostanze eccezionali e difficilmente ripetibili – da lasciare emergere regolarmente nella memoria, involontariamente o con ricerca e sforzo più faticosi con il passare degli anni.

Anche per questo ho voluto avventurarmi fino a quell'isola dove altrimenti non sarei mai andato. Speravo, forse, di farmi passare il mal del Giappone, ma mi è rimasto, più forte di prima, anche grazie a Sejima-san e ai suoi desideri divenuti realtà: forse perché crede alla realtà dei suoi desideri?

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