Laura Bossi: Nel 2008 lei ha pubblicato Africa Rising. How 900 Million African Consumers Offer More Than You Think, un libro pieno di ottimismo in cui sottolinea che, nonostante malattie, guerre e corruzione, l'Africa è un mercato con 900 milioni di potenziali consumatori. Secondo la Banca Mondiale, se l'Africa fosse un'unica nazione, nel 2006 il suo PIL avrebbe toccato i 978 miliardi di dollari: decima economia mondiale, davanti a India e Brasile…
Vijay Mahajan: Il mio interesse per l'Africa è nato in seguito al mio libro precedente, The 86% Solution, il cui titolo indica la quota di persone che vivono in Paesi in via di sviluppo con un reddito annuo pro-capite inferiore ai 10.000 dollari. I miei studenti, infatti, mi hanno fatto osservare che avevo scritto molto riguardo all'America latina, all'Asia e all'Europa dell'est, ma quasi nulla sull'Africa. Ciò mi ha messo davvero in imbarazzo, perché avevo prodotto un testo sui Paesi emergenti che aveva pochissimo da dire sui 53 Stati africani. Avevo viaggiato in Sudamerica, Asia ed Europa dell'est, ma non avevo messo piede in Africa. Pensavo che non ci avrei trovato molto. La mia percezione si basava su quello che leggevo abitualmente sui giornali americani: storie di malattie, povertà, guerre.
Un giorno ho capito che se volevo sollevare la questione 'Africa', dovevo dimostrare che si tratta di un caso molto simile a quello di India e Cina. Ho cominciato ad analizzare i dati della Banca Mondiale sul reddito pro-capite in ciascun Paese africano ed ecco la sorpresa: la popolazione dei 53 Stati africani ammonta a oltre 950 milioni di persone e la loro economia complessiva è maggiore di quella dell'India, con un reddito pro-capite superiore di 250 dollari a quello indiano. Ho capito così che avevo in mano una storia importante. Per tre anni ho fatto la spola con l'Africa e intervistato molti imprenditori di diverse aziende. Ho fatto ricerche di mercato e parlato con un campionario di consumatori. Non ho voluto incontrare i politici, perché non mi interessava avere un "quadro ufficiale": preferivo vedere coi miei occhi come funzionano l'imprenditoria e i meccanismi di consumo in Africa.

LB: Nell'Ottocento, l'economista Claude Frédéric Bastiat scriveva che "quando le merci non attraversano i confini, li attraversano le armi". Nel suo libro lei ritorna a questo concetto parafrasando Andrew Rugasira, direttore esecutivo della Good African Coffee, Uganda: "L'Africa ha bisogno di commercio, non di aiuti per combattere la povertà". Qual è il suo pensiero a proposito?
VM: Non sono un esperto di sviluppo economico, mi occupo di marketing. Ogni persona, sia ricca o povera, sia che compri qualcosa per un centesimo o per cinquantamila dollari, nell'ottica delle mie ricerche rappresenta un consumatore. Sentire che l'Africa ha bisogno di scambi commerciali anziché di aiuti per me è stato interessante, ma credo che la questione vada vista da entrambi i lati. Molti sono convinti che gran parte delle enormi cifre ricevute dai Paesi africani sia scomparsa portando pochi risultati concreti. Persone come Rugasira sono convinte che dovremmo aumentare gli scambi con l'Africa. Secondo me i Paesi emergenti hanno bisogno di entrambe le cose: gli aiuti non devono necessariamente essere in denaro, serve anche il sostegno intellettuale. Non c'è niente di male se un Paese in via di sviluppo chiede aiuto. Ma se l'aiuto offre una soluzione temporanea, allora il problema è destinato a ripresentarsi. Il punto non è se dare o no, ma come aiutare. Per esempio, mi ha colpito il fatto che nell'intero continente africano ci siano solo ottanta facoltà di economia. È stata una grossa sorpresa. Probabilmente abbiamo più di ottanta facoltà di economia solo in Texas. Perché allora le istituzioni non pensano di contribuire creando una facoltà di economia globale di alto livello? Ciò produrrebbe manodopera qualificata, imprenditori, manager e leader per il futuro. È quello che accade in India e in Cina. L'Unione Europea è stata la prima a fondare una scuola di economia in Cina, e credo che oggi sia considerata tra le dieci migliori del mondo. Ci sono molti modi in cui le società avanzate possono aiutare l'Africa. Tutte le compagnie che vogliono operare nel continente hanno bisogno di dirigenti e solo un numero limitato di individui qualificati può fare ritorno dall'estero. Se c'è carenza di figure professionali, le aziende non possono crescere. Questo è il motivo per cui molte compagnie europee non hanno un quartier generale in Africa. Per me è difficile da capire. È come voler commercializzare un prodotto a un miliardo di consumatori indiani senza avere una sede in India. Ma se non conosci da vicino i tuoi clienti, come puoi pensare di proporre loro un prodotto? Ecco perché, quando alcuni anni fa sono venuto a sapere che la Coca-Cola trasferiva il quartier generale dal Regno Unito a Johannesburg, ho pensato che finalmente qualcuno stava facendo la cosa giusta.

LB: Dambisa Moyo, economista dello Zambia e autrice di Dead Aid (Penguin Books, 2009), sostiene che sarebbe meglio per l'Africa se i governi occidentali cominciassero lentamente a eliminare gli aiuti e costringessero i politici locali ad affrontare le loro responsabilità. È d'accordo?
VM: In parte. Dambisa Moyo prende una posizione decisa per stimolare l'Africa a cercare altre fonti di finanziamento. L'Africa riceve aiuti per circa 39 miliardi di dollari. È interessante far notare come 40 miliardi all'anno provengano dagli africani della Diaspora. Perciò il continente riceve un po' più dai suoi figli emigrati che dalle altre società. Non c'è nulla di male negli aiuti, ma sarebbe meglio se fossero più mirati. Se tutto lo sviluppo si basa sugli aiuti e non crea infrastrutture o istituzioni scolastiche o migliori condizioni per l'agricoltura, allora sono d'accordo con la Moyo.

LB: Come mai la Cina e l'India riconoscono il potenziale dell'Africa meglio dell'Europa?
VM: Vari studi dimostrano che fino agli anni Sessanta l'Europa non riconosceva alcuna possibilità di sviluppo neanche all'India. L'India ha ottenuto l'indipendenza solo nel 1948, poi le sono serviti quarant'anni per risollevarsi. Molti Paesi africani hanno raggiunto la libertà solo dopo il 1962. Prima che l'Europa riconoscesse all'India delle possibilità sono successe tre cose: innanzitutto gli indiani stessi hanno dovuto rendersi conto di rappresentare una grossa opportunità. Nel momento in cui hanno capito di essere un mercato di un miliardo di consumatori, le società indiane hanno cominciato a spuntare come funghi.
In secondo luogo, le società europee e americane hanno capito che nei loro Paesi non c'era molto spazio per la crescita. Prima dell'ultima crisi, per esempio, la crescita economica annua degli Stati Uniti si era attestata sul 3 o 4%. In Europa, la crescita era più bassa e in più la popolazione era in calo. Le multinazionali hanno compreso che le opportunità del mercato interno si stavano riducendo, quindi hanno dovuto guardare al resto del mondo. Hanno visto che le compagnie indiane funzionavano bene e hanno voluto vedere da vicino cosa succedeva. La demografia ha molto a che fare con tutto questo, perché la popolazione era giovane e più ambiziosa.
In terzo luogo, i media hanno cominciato a riportare storie di imprenditori di successo. Gran parte della percezione che abbiamo riguardo a un gran numero di Paesi si basa su quello che ci dicono i media. I problemi dell'India non sono certo finiti. Nel continente, 700 milioni di persone non hanno accesso a servizi igienici. Ma i media ci hanno detto che il settore dell'informatica in India andava forte. Che il settore manifatturiero in Cina era fiorente. Quando queste immagini positive hanno cominciato a circolare, più persone hanno cominciato a rivolgersi a quei mercati.
Purtroppo, queste tre cose non sono successe in Africa. Ma accadranno. Fino a quando non ho scritto il mio libro, non avevo mai sentito nessuno dire che l'Africa rappresentasse un'opportunità di mercato pari a India e Cina. Oggi, gli africani si stanno accorgendo di avere un grande mercato. Le multinazionali stanno cominciando a sentire storie di successo. In Africa, il settore delle comunicazioni, quello bancario e i dettaglianti stanno andando bene.

LB: L'Africa ha sempre attirato la nostra attenzione per le sue crisi sanitarie, politiche e umanitarie. Molte campagne di solidarietà svolgono un ruolo cruciale nell'aiutare la popolazione. Uno dei loro effetti collaterali, tuttavia, è quello di "rafforzare la percezione di una terra di guerre, malati e mendicanti". Lei cita il premio Nobel per la pace Wangari Maathai, la quale ha affermato: "Non credo proprio che gli americani cambieranno il loro modo di vedere gli africani fino a quando gli africani non cambieranno il modo in cui considerano se stessi".
VM: Maathai ha completamente ragione. Sta mandando un forte messaggio agli africani: "Per amor del cielo, siete molto meglio di quello che credete! La vostra economia è più forte di quella indiana. Il vostro mercato è grande quanto quello indiano. Le vostre capacità imprenditoriali sono ottime". Gli africani devono farsene carico, come hanno fatto gli indiani e i cinesi. Sono sicuro che è solo una questione di tempo. Mentre viaggiavo in Africa, quando parlavo con le imprese e gli imprenditori avevo la stessa sensazione che provavo in India e in Cina nei primi anni Novanta. Ma se gli africani non cambiano il loro modo di vedersi, continueranno ad affermare di essere poveri e bisognosi di aiuto.

LB: Matthew Barwell, direttore del marketing della multinazionale Diageo, le ha detto che "il prodotto più esportato da posti come la Nigeria è l'ottimismo"…
VM: Quand'ero in Sudafrica ho parlato con il direttore locale della Coca-Cola. Mi ha passato uno studio che avevano fatto per dimostrarmi quanto le nuove generazioni fossero ottimiste. La definizione di ottimismo cambia in ogni Paese africano, ma quello che li accomuna è la volontà di cambiare. Barwell mi ha detto anche che la Nigeria è un Paese pieno di energia. Il mio autista locale aveva una ventina d'anni; ogni volta che gli chiedevo se era sicuro della strada, mi rispondeva di sì. Poi si perdeva. Questo accadeva spesso e mi faceva sempre arrivare tardi agli appuntamenti. Quando glielo ho fatto notare, mi ha detto: "Senza ottimismo, non troverei mai la strada. Certo, mi perdo, ma alla fine arrivo sempre". Questa fiducia è molto diffusa tra i giovani. La Nigeria esporta ottimismo e la più grande colonia di emigranti africani negli Stati Uniti è proprio quella nigeriana. Lavorano duro, mandano molti soldi a casa. Il prodotto che più esportano sono i film, che producono senza nemmeno avere degli studi, come gli indiani a Bollywood. Il loro cinema è stato ribattezzato Nollywood. Non hanno sale cinematografiche, né scuole di recitazione o attori professionisti, solo imprenditori che producono DVD con una videocamera. L'86% del titolo del mio libro (oggi circa 5,3 miliardi di persone) è destinato a crescere, perché la popolazione delle società avanzate è in calo. In più, nei Paesi emergenti si fanno molti figli. Presto quell'86% diventerà 90. Se il 18% della popolazione mondiale vive in Africa, non possiamo ignorare questo continente. Cinesi e indiani non lo fanno: ci sono società cinesi e indiane in tutta l'Africa. E non spariranno con la recessione: sono lì per rimanerci. Non ho parlato coi politici, quindi non so che tipo di accordi Cina e India abbiano coi governi locali. Mi interessava solo il mercato. È stato sorprendente constatare come, per la prima volta, parte della popolazione possa permettersi delle scarpe, ma a volte anche TV e lettori DVD. Le aziende indiane stanno esportando i prodotti che hanno realizzato per gli indiani. Sanno che la situazione in Africa non è diversa da quella di India e Cina, quindi qualunque prodotto realizzano per l'India si può vendere anche in Africa. Sanno che valore e prezzo sono importanti. Molte aziende hanno margini di profitto minimi, il che non le spaventa perché, diversamente da europei e americani, ci sono già abituate. Un esempio è stato la mia prima telefonata per fare una prenotazione in Sudafrica. Ho contattato un'agenzia disposta ad aiutarmi a prenotare gli hotel e a trovarmi un autista. Ho ricevuto una e-mail col nome di un hotel molto caro. Per l'autista, hanno offerto tre possibilità: noleggiare un'auto con guidatore, una guardia del corpo e un infermiere, il che significava avere altre tre persone con me. La seconda offerta comprendeva due persone, un autista e una guardia del corpo-infermiere. La terza prevedeva una persona capace di svolgere i tre ruoli. Ho esaminato le tre possibilità e mi sono chiesto come potevo sostenere la causa africana se tutti hanno bisogno di una guardia del corpo e di un infermiere. Poi ho deciso di chiamare i consolati indiano e cinese a Houston per farmi mettere in contatto coi loro colleghi in Africa, così da vedere che aziende vi operavano. Quindi ho contattato una delle ditte indiane, che mi aveva aiutato anche col libro precedente. Si sono messi a ridere, dicendo che noi non sappiamo come si tratta in Africa. Ho capito che non abbiamo la mentalità per fare affari in quei luoghi.

LB: Nel suo libro lei analizza il proverbio Zulù "Una persona è una persona attraverso gli altri", precisando che solo le attività che hanno a cuore i bisogni della comunità possono aver successo in Africa. Lei avvicina questo concetto al termine Zulù ubuntu (Io sono perché tu sei). Può spiegarsi meglio?
VM: Ubuntu non vale solo in Africa, ma in ogni Paese emergente. Incontrare molte aziende mi ha fatto capire che se il consumatore muore o il dipendente si ammala, l'attività non procede. Aziende, dipendenti e consumatori sono legati tra loro. Quindi un'azienda è un'azienda attraverso i suoi dipendenti e i suoi clienti. In tal modo gli obblighi sociali e la personalità di un'attività acquistano preminenza. È per questo che molte società (dalla Unilever alle ditte locali) si preoccupano sia dei clienti che dei dipendenti. Partecipano al loro benessere. Se il quartier generale non è in Africa, come si fa a conoscere la loro situazione? È possibile solo se si è presenti e si diventa parte della loro vita. Quando si ha cura del cliente e del dipendente, essi a loro volta si curano dell'azienda. Perché mai dovrebbero non ritornare parte di quello che hanno ricevuto? È un bene per tutti. Ubuntu è un buon termine per descrivere quello che accade in Africa.

LB: L'Africa è uno dei continenti più giovani del mondo. Il 41% della sua popolazione ha meno di 15 anni. In Europa la percentuale è del 15%. Lei afferma che "i giovani africani sono tra le persone più ottimiste del mondo e hanno leader politici, intellettuali e artisti come modelli di riferimento". Ma possono generare una crescita economica?
VM: Sicuro. I miei figli sono cresciuti negli USA, quelli di mio fratello in India, ma non sono diversi. La situazione è cambiata completamente dalla mia adolescenza, quando sentivo continuamene i miei genitori raccontare quello che succedeva in India durante l'occupazione inglese. Nei ristoranti c'erano cartelli che dicevano "Vietato l'ingresso ai cani e agli indiani". E i miei genitori l'hanno vissuto. Ma per i miei nipoti, l'India coloniale è solo un capitolo del manuale di storia. Lo leggono, poi tornano alla vita di sempre. Non hanno memoria di quei giorni. In Africa, i giovani non pensano a quello che inglesi, tedeschi e italiani hanno fatto al loro continente. In più, grazie a moderne tecnologie come il telefonino, i giovani africani sono connessi col mondo esattamente come i miei figli.
Al largo della costa di Dakar, la capitale del Senegal, c'è un'isola che si chiama Gorée, dove le navi un tempo imbarcavano gli schiavi. Non è molto lontana, così sono andato a visitarla, accompagnato da un giovane locale che parlava inglese. Mi ha chiesto se mi serviva una guida. Quando gli ho domandato se aveva studiato, mi ha detto che sull'isola c'era un liceo, dove si era diplomato. Ma il Senegal è francofono, così gli ho chiesto se avesse studiato inglese a scuola. Mi ha risposto che lo aveva imparato dai turisti, insieme ad altre 9 o 10 lingue! E lo parlava meglio di me! Poi mi ha raccontato la storia dell'isola, e siamo arrivati al punto di raccolta e imbarco degli schiavi. Ho percepito una orribile vibrazione. Mi ha mostrato dove uomini e donne erano tenuti. Le donne cercavano a tutti i costi di avere rapporti sessuali coi bianchi, perché se restavano incinte non venivano imbarcate. Poi ho visto le celle, piccole e buie. La mia guida mi ha chiesto di entrare, mi ha detto che si trattava delle celle in cui venivano segregati gli schiavi che si ribellavano. Ho messo un piede dentro, ma non sono riuscito a entrare. Ho fatto marcia indietro con lo sgomento dipinto sul volto. Allora il ragazzo mi ha guardato e mi ha detto: "Professore, non ci dia peso. Bisogna dimenticare". Che generazione! Loro vogliono andare avanti ed ero io, uno straniero, a tirare dall'altra parte!

LB: In una recente intervista, Ralf Dahrendorf ha detto che la crisi attuale è mondiale ma non globale. Aggiungendo che, di conseguenza, "è sbagliato credere che ci siano soluzioni globali". Che effetto avrà la recessione sull'Africa?
VM: Quando ho cominciato la mia avventura africana 5 o 6 anni fa, nessuno me l'avrebbe chiesto. E questo è interessante. Si pensava solo che l'Africa era povera, che niente poteva accadere. La sua domanda, che mi è stata fatta anche da altri, è un complimento per l'Africa. Significa che è diventata parte del quadro globale. Quindici anni fa, nessuno l'avrebbe posta neanche riguardo all'India. Come pensare che i problemi dei Paesi ricchi potessero riguardare Paesi così poveri? Ma per tornare alla sua domanda, posso solo risponderle in termini di marketing. Paesi come il Botswana e lo Zambia hanno i diamanti; ora che i prezzi scendono sentiranno gli effetti, come tutti nel settore diamantifero. Il taglio dei diamanti si fa in India, e l'attività ne soffre. Il governo sta incoraggiando quei lavoratori a cambiare settore. Quindi in Paesi in cui ci sono diamanti e rame l'economia ha necessariamente dei contraccolpi.
Cosa accadrà alla gente? Nel mio libro, faccio una distinzione tra Africa Uno, Due e Tre. L'Africa sarà portata avanti dal secondo gruppo. Africa Uno rappresenta dal 5 al 15% della popolazione, i ricchi. Africa Tre è il 40-60%, quella veramente povera. Africa Due è mediamente povera, gente che fatica di mese in mese nei settori della scuola, della sanità, del turismo, come per esempio il mio autista in Nigeria. Secondo la mia teoria, con la recessione Africa Uno sopravvivrà. Hanno già vissuto questa situazione e hanno i mezzi per sopravvivere. Africa Tre non ha mai avuto niente e non ha molto da perdere. Africa Due potrebbe soffrirne: meno safari, meno turisti alle piramidi o sulle spiagge dell'Africa occidentale. Ma sono molto ottimista. Spero che in due o tre anni la situazione migliori, e questo enorme mercato sarà ancora lì. Le madri dovranno sempre nutrire i figli, ci sarà sempre bisogno di medicine, trasporti e infrastrutture. Sono convinto sia un momento favorevole per le aziende che hanno le risorse per entrare nel mercato. Con la recessione, entrare in Africa costa poco.