La più gioconda veduta del mondo: a casa di Gianni Berengo Gardin

Tra i più importanti fotografi viventi, ha documentato attraverso uno sguardo chiaro ed empatico l’evolversi dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. L’abbiamo incontrato nella sua mansarda-studio.

“Essere testimone della nostra epoca” è una frase che dice molto dell’immenso lavoro di Gianni Berengo Gardin, ma anche sulla sua casa. Qui, nel sottotetto, una luminosa mansarda-studio contiene centinaia, forse migliaia di libri. Impilati a terra, a detta di Gianni “in un ordine apparente”, innumerevoli volumi di fotografia raccolgono gli scatti di tutti quei maestri dello sguardo che ci hanno raccontato e ci racconteranno molto di come eravamo. Tra queste colonne di pagine, un occhio attento può scovare più di 260 libri che portano il suo nome.

Oltre a quelli, è presente nella mansarda-studio una documentazione che conta un milione e mezzo di negativi, in cui si racconta l’evoluzione del paesaggio e della società italiana, e non solo, dal dopoguerra ad oggi. Un patrimonio visivo distribuito in un lungo corridoio, a metà del quale c’era la porta della camera oscura. Oggi quella stanza ospita l’ufficio della figlia Susanna Berengo Gardin, grazie alla quale questo inestimabile tesoro visivo viene curato, diffuso e valorizzato. “Il mio è un lavoro di documentazione più che un lavoro artistico”, spiega il fotografo, che sottolinea il valore che dà al fare. “Ho sempre avuto una grande passione per la manualità, infatti dico continuamente che il lavoro del fotografo è manuale, ho fatto anni ed anni di camera oscura, a stampare le foto”.

Una passione, quella per la manualità, che dice molto sul suo modo di intendere “il mestiere del fotografo” e che si rispecchia nello studio: dal tavolo centrale disegnato da Berengo Gardin stesso, ai modellini di barche costruiti quando era ragazzo, fino ad un mobile da bricolage fornito di ogni sorta di attrezzo. 

A casa di Gianni Berengo Gardin. Foto Elena Vaninetti
A casa di Gianni Berengo Gardin. Foto Elena Vaninetti

Tra ritagli di giornale, frasi e fotografie, tenute appese da una puntina, spicca una dedica in francese: “A Berengo, con amicizia e ammirazione”. È firmata ‘Henri’. “L’ammirazione di Carter-Bresson è un qualcosa di più di un piacere” afferma Gianni, “la considero una medaglia d’oro al valore”. Proprio in quell’angolo, tra premi e riconoscimenti, compaiono le foto di quegli autorevoli nomi che l’hanno profondamente influenzato: Salgado, Koudelka -per citarne solo un paio - difficile dire se prima amici o maestri. “Non dico che si impari a fare fotografia solo sui libri, ma si è sempre influenzati dai grandi maestri”. Per comprendere certe scelte, imparare a distinguere, ma soprattutto capire come illuminare la realtà, spiega Berengo Gardin.

L’amore antropologico sincero, diretto, con cui il fotografo ha impresso momenti, riti, baci e ferite del nostro paese, è lo stesso che si ritrova qui, in una collezione degli oggetti più disparati: tra gli scaffali compare un’intera processione di statuine in terracotta, acquistate a Brindisi, mentre – poggiate a terra – le sagome di due buffe donne voluttuose arrivano direttamente da un pub inglese: “sono tornato con loro sotto braccio, non le dico in aeroporto!”; per arrivare alle collezioni di pipe, macchinine o giocattoli. 

  

“Una volta ero un maniaco del collezionismo, o forse si può dire un accumulatore. Durante ogni mio viaggio prendevo qualcosa che mi ricordasse quel luogo, ma sono tutte cose kitsch di poco valore.” Tutte, a parte qualche oggetto misterioso che fa capolino, come una bottiglia ricevuta in dono dalle sorelle di Giorgio Morandi, proprio una di quelle che il pittore amava ritrarre nelle sue nature morte. 

Sono un fotografo, non un artista-fotografo, o una fotografo-artista, come molti amano definirsi oggi, ma d’altronde le cose sono cambiate e mancano le commissioni per poter svolgere certe professioni.

Proprio Cartier-Bresson diceva che “la fotografia di reportage ha bisogno di un occhio, un dito, due gambe.” Una sete di verità, la stessa che portò Berengo Gardin ad immortalare, insieme alla collega Carla Cerati, le condizioni dei pazienti detenuti nei manicomi, nel progetto “Morire di classe” pubblicato da Franco e Franca Ongaro Basaglia. Un momento memorabile nella storia della fotografia e dell’editoria italiana.

A casa di Gianni Berengo Gardin. Foto Elena Vaninetti
A casa di Gianni Berengo Gardin. Foto Elena Vaninetti

“Sono un fotografo, non un artista-fotografo, o una fotografo-artista, come molti amano definirsi oggi, ma d’altronde le cose sono cambiate e mancano le commissioni per poter svolgere certe professioni”, afferma Gianni, contrario a tutto ciò che devia dal significato originario dell’essere fotografo, così come verso ciò che ne altera l’immagine: “Io odio photoshop!”, esclama scherzosamente con dissenso. La purezza dell’immagine, quel bianco e nero che ne definisce i riflessi e le ombre, senza la distrazione del colore, è quel sentire che ha accompagnato ogni viaggio di Berengo Gardin, che in questo luogo una volta tornava giusto per cambiare le macchine e rifornirsi di nuovi film, ma dove ora trascorre più tempo “E se non c’è niente da fare se lo inventa” come sottolinea sorridendo Susanna.

“Anche nei provini c’è sempre qualcosa da recuperare, da scavare, magari alla ricerca di inediti o dii scatti poco visti, come ha fatto durante la pandemia”. Ed è in questo studio, dove ogni piccolo oggetto riporta ad un “altrove”, che Gianni ama vivere le sue giornate quando non è nella sua adorata Liguria, terra natia dove poter sempre ritornare: “Una volta non mi interessava il verde”, racconta, “non lo tenevo nemmeno in considerazione, adesso che ho meno impegni, ne sono diventato fanatico: a Camogli ho piantato personalmente 35 alberi da frutta, albicocche, ciliegie, ananas, mi piace stare dietro al mio giardino”.

Gianni Berengo Gardin è considerato uno dei maestri della fotografia italiana. Nato nel 1930, si stabilisce a Milano nel 1965, dove comincia la sua lunga carriera di reporter, occupandosi di indagine sociale (i lavori sugli istituti psichiatrici e sui Rom), di fotografia industriale, di architettura e di paesaggio. Si è dedicato soprattutto alla realizzazione di libri, pubblicando oltre duecentocinquanta volumi fotografici. I suoi lavori sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei e fondazioni internazionali. La più gioconda veduta del mondo menzionata nel titolo è un libro del 2018, edito da Contrasto, in cui è racchiuso un lavoro inedito di Berengo Gardin che ritrae Venezia da un particolare punto di vista: la stessa finestra da cui, cinquecento anni fa, si affacciava Pietro Aretino.

Immagine di apertura: Gianni Berengo Gardin. Foto Elena Vaninetti

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