Teddy Cruz

Conversazione con Teddy Cruz. A cura di Giulia Guzzini.

Nelle Intersections di Domus 918 "Hyperscale. Architecture in the urban century", curate da Francesca Picchi, veniva presentato il lavoro svolto da Teddy Cruz e dal suo studio nelle zone di frontiera al confine tra Stati Uniti e Messico. Lo scorso mese, abbiamo incontrato Teddy Cruz a Firenze dove era invitato dalla Fondazione Targetti come relatore del convegno "Lo spazio pubblico nella città diffusa" e gli abbiamo rivolto alcune domande.

Da tempo lavora lungo il valico internazionale di San Diego / Tijuana cercando di creare nuove forme di collaborazione con istituzioni e giurisdizioni, mi riferisco ad esempio alle "micropolitiche di intervento" volte a trasformare lotti suburbani in sistemi sociali che possano favorire lo scambio economico e sociale. Da dove nascono questi progetti?
Teddy Cruz: Ho sempre cercato di riposizionare me stesso, come architetto, nel contesto della città, comprendendone fino in fondo le dinamiche sociali, economiche e politiche. Inoltre il conflitto inteso come opportunità rappresenta un aspetto centrale della mia pratica. Detto questo, mi ha sempre affascinato la possibilità di essere testimone delle trasformazioni in atto nel tessuto urbano che, attraverso gli immigrati ad esempio, danno luogo a dinamiche informali capaci di suggerire un'idea di città molto diversa da quella che abbiamo comunemente.
Attraverso il mio lavoro ho avuto a che fare da vicino con il ruolo che ricoprono gli immigrati nella produzione di un diverso immaginario legato alla città. Nei territori di confine nei quali ho lavorato, esiste ad esempio un flusso di persone che cerca di entrare dal Messico negli Stati Uniti che si muove quindi da sud verso nord, mentre in direzione opposta, da nord verso sud, si genera un flusso di rifiuti che dalla California viene trasferito verso Tijuana, nelle shantytowns, tanto che si può dire che le nuove periferie di Tijuana, suburbi e slum informali che spuntano nell'arco di un giorno, abbiano preso forma dai rifiuti di San Diego. Migrazione di persone da un alto e dall'altro trasferimento di rifiuti: questi flussi invisibili sono stati ispirazione per il mio lavoro insieme all'idea che in queste migrazioni ci fosse un valore nascosto capace di generare un'idea differente di economia e di politica nella città.

Crede che queste dinamiche possano essere individuate anche in un sistema più ampio e globale?
T.C.: Guardando alla crisi in atto, credo che in questo momento più che mai siamo testimoni dell'estensione di certi fenomeni su scala più ampia. Lo sviluppo della città non può essere contenuto in una sola ricetta e l'hyper-sviluppo non può essere la sola risposta, andrebbe invece ripensato il significato di infrastruttura, di case popolari e di spazio pubblico e bisognerebbe prestare attenzione alle dinamiche sotterranee e spontanee come i social network. La casa non deve essere vista solo come un'unità abitativa, può essere più che un guscio: può trasformarsi in un motore economico per ripensare i modi di produzione e l'organizzazione del lavoro all'interno di una comunità e può essere incorporata a una nuova idea di infrastruttura, probabilmente molto più sostenibile. L'America Latina mi sembra in questo senso un buon esempio da citare e mi sembra che un modello che possa essere esportato sia quello costituito dalla California, dove gli immigrati hanno innestato un processo di 'retrofitting' appropriandosi di territori periferici per convertirli in aree più complesse e in economie alternative.

Perchè pensa che l'America Latina rappresenti un esempio virtuoso?
T. C.: Perchè hanno capito che la città contiene al suo interno un ampio spettro di idee di urbanismo informale e di economie alternative che possono convivere con i modelli tipici delle zone largamente urbanizzate. Penso che alcuni dei sindaci più illuminati come Jaime Lerner a Curitiba, o Enrique Peñalosa a Bogotà o Sergio Fajardo a Medellin non abbiano interesse nel perpetuare un'idea di città paludata, ma che abbiano capito che c'è uno straordinario potenziale nell'assorbimento di alcune delle dinamiche informali che si creano spontaneamente nelle aree abitate e sono in grado di trasformarle in istituzioni più formali, mettendo in atto un'idea ibrida di infrastruttura formale e informale allo stesso tempo.
In ultima istanza, credo che questi sindaci da un lato muovano da una certa insoddisfazione nei confronti del modello nord americano di globalizzazione e dall'altro abbiano capito che un'economia informale sia un modo di produrre e come tale possa essere molto efficace. Dovremmo smettere di guardare all'abbondanza e essere in grado di guardare a quei luoghi in cui la scarsezza rappresenta un riferimento, luoghi in cui emergono attualmente alcune delle idee più brillanti, ambienti dove molto è stato fatto con molto poco.

Estudio Teddy Cruz, 60 linear mile section, San Diego/Tijuana. Entrata temporanea del Padiglione Americano alla Biennale di Architettura, settembre 2008: una lunga immagine orizzontale a rappresentare l'attuale confine che separa la California dal Messico
Estudio Teddy Cruz, 60 linear mile section, San Diego/Tijuana. Entrata temporanea del Padiglione Americano alla Biennale di Architettura, settembre 2008: una lunga immagine orizzontale a rappresentare l'attuale confine che separa la California dal Messico
Estudio Teddy Cruz, Manufactured Sites: Emergency Housing (All images courtesy of Estudio Teddy Cruz)
Estudio Teddy Cruz, Manufactured Sites: Emergency Housing (All images courtesy of Estudio Teddy Cruz)
Estudio Teddy Cruz, Casa Familiar: Living Rooms at the Border (All images courtesy of Estudio Teddy Cruz)
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Estudio Teddy Cruz, Casa Familiar: Living Rooms at the Border
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