Nella generazione di Siza, non c'è forse nessun altro autore che abbia meglio compreso la delicata differenza dialogica tra scultura e architettura: in qualche misura, ciò può essere imputato alla sua ambizione giovanile di diventare scultore. Fortunatamente per noi, ancora in giovane età, ha optato per il più pragmatico mestiere dell'architetto. Malgrado questo spostamento verso la tettonica, l'attrazione di Siza per il figurativo, sebbene in forme astratte, è rimasta per mezzo secolo, nella sua opera, un elemento costante: dal ristorante Boa Nova del 1958, alla Fondazione Ibere Camargo di Porto Alegre, in Brasile, completata di recente, ma della quale i primi schizzi risalgono al 1988. Quel che colloca la sua interpretazione plastica in una classe a parte, dato il metodo parametrico oggi di moda, è il fatto che la morfologia di Siza è concepita, allo stesso tempo, dall'interno e dall'esterno, attraverso un'unica e istantanea operazione. Questa simultaneità è qualcosa a cui gli architetti barocchi dei nostri giorni aspirano, ma che raramente (se mai) raggiungono. Per costoro la priorità è gratificare il nostro insaziabile appetito per tutto ciò che è spettacolare: secondo il quale ogni edificio deve essere un altro pesce esotico, dragato dalle profondità e posato sul terreno come un oggetto alieno.

Questo tipo di pesca subacquea non è mai stato parti pris per Siza; la topografia, invece, è sempre stata il suo "punto di partenza". L'arte più profonda, per lui, è quella della mano del disegnatore che si muove sulla superficie del foglio; in altre parole, il presagire con l'occhio della mente dell'architetto l'inafferrabile essenza di ciò che il luogo desidera essere. Di qui il suo aforisma beffardo, autoironico e, tuttavia, profondamente significativo: "Gli architetti non inventano nulla, trasformano la realtà". Con questo processo di interiorizzazione del programma attraverso lo schizzo sul luogo, il progetto viene inscritto all'interno di un movimento dinamico del terreno: così non si percepisce più esattamente dove inizi l'uno e dove finisca l'altro.

In questo caso ci viene proposto un programma rovesciato, allo stesso tempo, "dall'interno verso l'esterno" e "dall'esterno verso l'interno": una sorta di labirinto capovolto, nel quale il percorso interno della circolazione principale, lastricata in pietra levigata, tocca i tre patii trapezoidali che costituiscono i volumi negativi del profi lo amputato, a testa di Idra, della casa. Quest'ultima – la forma positiva che si allunga su un unico piano – insiste su un lotto in leggera pendenza: è suddivisa in sette ambienti di forma ortogonale ai quali si aggiunge un soggiorno più ampio, anch'esso ortogonale, concepito come due rettangoli che si elidono, separati da una parete scorrevole. Tra questi spazi, cinque stanze da letto dotate di un padiglione, ciascuna con il proprio bagno.

Alle unità indipendenti si accede in modo discreto attraverso un percorso tortuoso, come fossero megaron autonomi: riflessi prismatici, per così dire, di un villaggio di pescatori appartenente a una qualche epoca pre-consumistica. Un altro prisma – lo studio accanto all'ingresso – completa lo schema ad ali divaricate, insieme a un cortile d'accesso dalla forma irregolare e a un garage collocati nella parte più elevata del terreno che, per il resto, degrada impercettibilmente verso il mare. La relativa inaccessibilità dell'oceano è compensata da una piscina e da un solarium: sapientemente collocati, lasciano la casa paradossalmente circondata da un prato. Una fascia di marciapiedi in cemento e di isolate terrazze in pietra si interpone tra il prato e la casa: come fosse il prolungamento orizzontale della base rivestita in pietra che, con variazioni di profondità, delimita il legno che riveste la casa.

Malgrado il rigore scultoreo del volume, al carattere suburbano dei prospetti, con i loro inserti lignei e delle doppie porte in cristallo pesantemente incorniciate in legno, risponde incisivamente all'interno la superfi cie intonacata di un corridoio tortuoso, misteriosamente illuminato e lastricato in pietra, che immette nello spazio cucina-zona pranzo: per ricordare a una classe arrivista le sue origini contadine.

L'intenzione originaria dell'architetto era quella di rivestire tutta la casa in pietra o in una combinazione di pietra e intonaco: ciò sarebbe stato certamente più appropriato non soltanto rispetto al sito, ma anche al contesto e al clima. Così com'è, la luminosità di questa invenzione plastica, manifestamente immaginata in continua trasformazione sotto il chiaroscuro della luce mediterranea, è stata appiattita dal rivestimento in legno. Considerata l'innegabile energia della forma sarebbe diffi cile pensare a una rifi nitura più antitetica. Nonostante la generosità e il coraggio del sostegno iniziale del committente, la sua penultima insistenza per il rivestimento in legno ci ricorda ancora una volta che i clienti davvero raffi nati sono ancor più rari degli architetti sensibili.