Eruzione
Eugenio Tescione

Ah la violenza della conversione del dirottare strade e seppellire dei e vita d'anime ricoprire di nuova visione di nuova prospettiva la via la casa la stanza l'abitudine lo scorcio conservato negli angoli degli occhi quando lo sguardo si rivolge all'atto quotidiano… La violenza di una eruzione appare tanto maggiore quanto minore è il tempo in cui avviene: un botto, la catastrofe è racchiusa in un punto che congiunge percezione, coscienza e negazione del disastro, della interruzione di una familiare e rassicurante continuità.

Il vulcano è così vicino e così silenzioso, fonte d'ombra e presenza abituale nell'angolo dell'occhio: è cosa posseduta, né severo né permissivo, è lì, né cattivo né buono… fu coincidenza, puro caso che urlò la sua presenza nello stesso tempo in cui quello che era solido negli angoli cominciava a diventare pagano, errato, seppellibile nel sottosuolo della coscienza, destinato a spuntare poi in esiliforme superstizione e trasformato addomesticato al nuovo pensiero rivelato. La città fu seppellita, da lì sotto gli innumeri dei urlarono proteste contro l'uno rimasto padrone del paesaggio interiore... poi si placarono, si accontentarono d'essere ricordati, di manifestarsi nei sintomi della scaramanzia, soddisfatti al pensiero che prima o poi sarebbero stati riportati alla luce, scavati.

La violenza appare minore se si dispiega nel tempo, nell'imperfetto d'una azione continuata, il tempo usato dai bambini quando giocano e si allenano a dominare la realtà. "… allora, facciamo che io ero il sindaco e tu eri la signora che andava a fare la spesa e trovavi le pietre che ti facevano inciampare e io dicevo che ero buono e che quasi quasi quei sassi li seppellivo e poi che potevi cadere in acqua e così io ti chiudevo la strada e lui ci costruiva la ferrovia e il trenino passava come una specie di nave lunga lunga…".

Dopo l'eruzione, la catastrofe inavvertita del dispiegarsi nel tempo d'una continua inarrestabile conversione ad un monoteismo apparentemente scevro dei mitici conflitti politeistici, il tempo dell'io che decide di noi: senza che nessuno se ne accorgesse, nel tempo si è dispiegata la violenza della conversione urbana. La città ha sepolto la Città, lo scorcio nell'angolo dell'occhio è stato stravolto, si è continuamente edificato un degrado abituale, un'abitudine al deserto che copre come coperta rappezzata e inestetica i corpi che vissero e che dormono nella coscienza di ognuno.

Il perturbante è diventato familiare. … ah mai più seppellire opporsi alla rimozione d'anime conservare opporsi alla distruzione edificare al fianco perché si conservi e si condivida passato e presente perché la linea degli edifici sia lirica prospettiva del tempo… La necessità di stare, di rimanere, di non essere rimosso, alimenta e sospinge il disegno dell'edificio: con coraggio viene elevata ad elegiaca forma d'oggi l'antica e più semplice protezione per sé e per i frutti che si sanno produrre: pennate amplificate, segno abituale nell'angolo dell'occhio che guarda ai campi coltivati, erette nelle dimensioni di un urlo che protesta contro la violenza silenziosa, imperfetta, continuata nel tempo.

Esse sono come scritto poetico che elude la rima, che usa la lingua e la parola quotidiane trasformandole in segno capace di essere oggetto visibile dell'invisibile estensione dello spazio interiore. Sono come cose possedute che non si sapeva di possedere. Grattacieli orizzontali che rendono concrete linee di prospettiva che coniugano terra e mare, passato e futuro; che sottintendono il sepolto e il sottomesso e lo salvano; che sottolineano la profondità della terra e le sue mummificate voci, la profondità del mare e la sua superficie che porta lontano il pensiero che la naviga; che si oppongono alla rimozione (della ferrovia, del mare, delle anime che abitano silenziose). Il progetto è la compressione in uno spazio da schermo a cristalli liquidi di un'idea e di una sofferenza: due dita che sfiorano lo schermo e accompagnano le linee delle pennate con gesto elegante, leggero nonostante portino dolorosamente il peso del pensiero, attraversano spazi e tempi sovraindividuali, dimensioni appartenenti agli scorci negli angoli di occhi asciutti, alla storia che c'è sotto. Il gesto che fluisce gentile su questa compressione è carico della violenza che fa urlare la protesta, della delicatezza che accarezza il pelo dell'acqua e vi disegna una linea invisibile, riga che subito sparisce. È il moto del pensiero cosciente che sa che il rimosso crea sintomi.

Eugenio Tescione è psicologo psicoterapeuta, vive e lavora a Caserta. Nel 2003 ha pubblicato Architettura della mente, Testo&Immagine (ora Marsilio). Ha collaborato in diverse occasioni con Beniamino Servino: sul tema del commissionare con L'invisibile della committenza (1997); sull'architettura del Novecento in provincia di Caserta con Papilonettes (1999); sull'abitare degli homeless con Two-ness, lavoro esposto alla Biennale di Venezia, 2002.

Sarà mai possibile interrare la ferrovia?
Un basamento di cemento, complanare alla ferrovia, traccia una linea retta tra il lido Arturo e l'approdo borbonico della Favorita. Il basamento genera un sistema ortogonale di edifici, le pennate, che si spingono a pettine verso l'interno. Con una geometria propria. Le pennate passano sopra la ferrovia, sopra le case, sopra le serre, sopra le strade, sopra le concerie. Sopra. E tutto, sotto, rimane inalterato. Nelle pennate sono sistemate le funzioni necessarie all'area: case, uffici, alberghi, musei, biblioteche. Le pennate sono sette, ma potrebbero essere di più o di meno. Sono costituite da un sistema di telai/cavalletti di cemento [ma anche di ferro] all'interno dei quali si infilano scatolari autoportanti. Gli scatolari sono strutturalmente autonomi rispetto allo scheletro che li sostiene. Quando è possibile, la pennata arriva fino a terra con un volume. Se no, continua, aerea, staccata. (Beniamino Servino)

Questo progetto è stato elaborato su invito della Fondazione Annali dell'Architettura e delle Città di Napoli ed esposto nella mostra "20-06", a cura di Marco Casamonti e Luca Molinari, Palazzo Reale, Napoli, 16.11.2006-15.12.2006.