A Hamar, in Norvegia, Sverre Fehn aveva realizzato negli anni Settanta la prima sede del Museo archeologico. È tornato ora sullo stesso sito per disegnare due addizioni. Testo di Yehuda Safran. Fotografia di Studio Sverre Fehn. A cura di Rita Capezzuto

Due anni fa Sverre Fehn ha festeggiato il suo ottantesimo compleanno. Dopo la scomparsa di Giancarlo De Carlo all’inizio dell’estate del 2005 e, nell’anno precedente, di Peter Smithson e Cedric Price, Jørn Utzon e Fehn sono forse gli unici superstiti di quella generazione di architetti, nata tra le due guerre, che ha sostenuto con convinzione un’architettura capace di dare un contributo essenziale alla qualità della vita: un’architettura senza la quale la nostra esistenza sarebbe molto più povera. Colpisce, riguardo a Fehn, il fatto che diriga tuttora uno studio capace di produrre progetti di grande bellezza e valore, come quello per il museo dell’architettura di Oslo, che si completerà tra breve. Il progetto fa parte del piano di recupero di un edificio preesistente, ma prevede anche un nuovo padiglione nella parte centrale della vecchia struttura a ‘L’. Si tratta di una costruzione che richiama il celebre – sia pur datato – padiglione dei Paesi Nordici alla Biennale di Venezia, e che riporta in Norvegia quelle qualità tipiche della città di Oslo, abitualmente associate a Sverre Fehn. Un anno fa, l’Archeology Museum di Hamar ha inaugurato le due nuove ali. Il progetto di Hamar era già celebre al momento della realizzazione del primo nucleo museale, nel 1975 (vedi Domus n. 551, 1975), anch’esso opera di Fehn. Ora, nelle nuove addizioni, c’è molto che ci incoraggia a rileggere i vecchi interventi alla luce delle nuove realizzazioni, tutte improntate a un grande rispetto, sia per il naturale che per l’artificiale. L’antica maestria nordica nella costruzione navale ha costituito a lungo un importante sostegno all’immaginazione di Fehn. Tuttavia, le tipiche chiese norvegesi in legno, che gli sono così familiari fin dall’infanzia, hanno poco a poco soppiantato questa influenza, prendendone il posto come forma fondamentale, come struttura che media tra l’uomo e l’ambiente: l’asse verticale è situato tra cielo e terra, di contro allo scambio orizzontale tra terra e acqua. Olaf Fjeld, collaboratore di Fehn dopo gli studi con Louis Kahn a Filadelfia, ha immediatamente riconosciuto la forza di penetrazione che caratterizza il lavoro di Fehn. In una recente conversazione a Oslo, Fjeld ha richiamato l’attenzione su quel che definisce “pensiero in costruzione”: Fjeld ammirava l’ottimismo di Fehn nel periodo in cui sentiva che l’architettura era in grado di portare un importante contributo alla comprensione di noi stessi. All’epoca, Fehn era vicino ad architetti più anziani come il norvegese Korsmo e il danese Utzon, coi quali, pur essendo ancora relativamente giovane, aveva lavorato ad alcuni progetti di edilizia residenziale a Oslo. È interessante così osservare come all’epoca egli fosse in grado di imparare contemporaneamente dallo studio di Jean Prouvé a Parigi e dall’opera di Mies van der Rohe. Forse il modo stesso in cui Fehn intendeva il ruolo dell’orizzonte in architettura – una distanza infinita che segna il passaggio tra il cielo in alto e la terra in basso – era così ampio da permettergli di far posto ad approcci tanto diversi. In sintonia con l’immaginario norvegese, la continuità di un orizzonte che passa dalla terra all’acqua per poi farvi ritorno ha segnato tutto l’arco della sua carriera. A Hamar, dove il primo nucleo del museo è stato costruito sulle rovine del palazzo vescovile del XIV secolo, il terreno è rimasto sostanzialmente integro. Una rampa a ‘L’, lunga e stretta, porta il visitatore al di sopra di un terreno in cui sono visibili tracce di un sito archeologico, e lo conduce al secondo livello della vecchia struttura, riconfigurato con un supporto verticale in cemento e con un tetto sostenuto da travi in legno laminato. In tutte le opere in mostra, numerosi dettagli colpiscono per semplicità ed eleganza. Del primo periodo storico di quest’area rimangono poco più che dodici pagine scritte. L’unica prova della cristianizzazione della zona sono piccoli manufatti e sculture in legno e metallo. Come Fehn ha sottolineato qualche anno fa in una conferenza alla Columbia Graduate School of Architecture, dopo la morte di un uomo la sua carne si decompone, nel tempo anche i suoi denti spariscono, cosicché solo utensili, chiodi e chiavi rimangono come prova della sua vita sulla terra. Hamar, in questo senso, è architettura in assenza di parola scritta. I due nuovi ampliamenti consistono in una struttura di vetro e legno che protegge alcuni resti databili al XII secolo. Il primo è come una pietra angolare, posta a un’estremità del sito. Il secondo, un profondo volume semicilindrico aperto ad arco, è protetto da una volta di cemento rivestita in rame e legno. In entrambi i casi, le nuove costruzioni rappresentano un’eco, trattenuta ed enigmatica, di quella che potremmo immaginare essere stata la loro completa struttura originale. In questo tessuto stratificato convivono differenti orizzonti temporali. La chiesa e il palazzo vescovile sono implicati in un dialogo con tempi ancora più remoti, luoghi di leggende bibliche ed eredità romane: tradizioni differenti, il cui valore viene restituito con grande sensibilità. Gli archeologi, coinvolti nel recupero e nella ricostituzione della vita di sei e otto secoli fa, e l’architetto, cui è stato chiesto di ricollegare con chiarezza i diversi reperti – ciò che è emerso dagli scavi, ciò che è stato ricostruito, quel che è rimasto intatto nei secoli, nonostante le guerre e l’azione della natura – hanno fatto del loro meglio per dar forma a ogni singolo frammento. È come se Sverre Fehn avesse invitato gli elementi – la natura e i manufatti – a impegnarsi per accogliere il suo intervento e non farlo sembrare un’intrusione. Al contrario, le recenti strutture di cemento, le nervature di metallo e gli elementi in legno nelle colonne e nelle travature non sono niente più che gli ultimi ospiti in questo festino degli dei, gli dei del tempo che divorano i loro figli.

Sverre Fehn è nato a Kongsberg (Norvegia) nel 1924 e ha studiato alla School of Architecture di Oslo, dove si è laureato nel 1948. Insieme a Norberg-Schulz, Grung, Mjelva, Vesterlid, Jørn Utzon e altri architetti scandinavi, ha creato nel 1950 il PAGON (Progressive Architects Group Oslo Norway), sezione norvegese del CIAM. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Pritzker Architecture Prize nel 1997. Ha insegnato alla Facoltà di Architettura di Oslo dal 1971 al 1993. Ha realizzato numerose residenze private e diversi musei e spazi espositivi, come il Padiglione dei Paesi Nordici alla Biennale di Venezia (1962). È in fase di completamento il Museo di Architettura di Oslo.