Gideon Boie: “Siamo tutti playboy”

Nella lotta contro il coronavirus, il telelavoro permette di continuare a far girare l’economia durante il lockdown. Reclusi in casa siamo diventati tutti dei playboy, nonostante questa fantasia non sembra essere affatto eccitante.

Il significato della casa è cambiato drasticamente durante la pandemia di Coronavirus. Per anni, la casa è stata un luogo di calma e tranquillità, dove il padrone di casa rientrava al termine di una giornata di duro lavoro in fabbrica o in ufficio. Oggi, invece, la casa è un centro nevralgico in cui si lavora, si impara, ci si rilassa, si fa shopping, si studia, ci si incontra, si socializza e si fa persino campagna elettorale. Man mano che la casa si apre al mondo, il mondo si stringe attorno alla casa.

Non c’è da stupirsi che il secondo lockdown abbia provocato una sensazione di claustrofobia tra la gente. Evadiamo dall’oppressione della casa privata en masse; camminare, fare jogging e andare in bicicletta sono diventati i nostri svaghi preferiti durante la pandemia; lavorare in ufficio un giorno alla settimana è una liberazione, anche se poi restiamo bloccati nel traffico nel tragitto da e verso l’ufficio; una visita al museo è un sollievo, anche se è permesso starci solo per un’ora. Per non parlare delle feste clandestine, organizzate nonostante le minacce della polizia di utilizzare droni per controllare gli spostamenti.

Lavorare da casa è diventata la norma in tempo di Covid, ma questo era previsto da tempo. Parlando dell’onnipresenza del letto (d’ospedale) durante la pandemia, la storica di architettura Beatriz Colomina ha fatto riferimento alle iconiche immagini di Hugh Hefner, il quale lavorava dal suo letto rotondo nella Playboy Mansion di Los Angeles. Il letto era una vera e propria sala di controllo da cui il “recluso contemporaneo” – così si definiva Hefner – organizzava ogni sorta di cose. Il tutto senza indossare abiti sartoriali, bensì vestaglia e pantofole.

Oggi siamo diventati tutti dei playboy, anche se quell’atmosfera di decadenza è svanita da tempo. Nella lotta contro il Coronavirus, il telelavoro è diventato un dovere etico. Lavorare dal letto – la parte fondamentale della casa – è diventato utile per il bene della salute pubblica. L’abbigliamento casual non è più un ostacolo. Il telelavoro permette di continuare a far girare l’economia durante il lockdown, garantire l’istruzione, accedere alla cultura, incontrare gli amici e molto altro.

Ciò nonostante, questa fantasia del playboy non sembra essere affatto eccitante, ma piuttosto un’agonia. Il recluso (non) volontario fa parte di un sistema capitalista che vuole che ogni minuto sia dedicato alla produzione e al consumo, come scrisse Beatriz Colomina ancor prima che cominciassimo a parlare di Covid-19. Nella sua visione, internet è stato appositamente progettato per rendere la sfera privata parte della vita produttiva. Lavorare da casa ci libera dal pendolarismo, ma non dallo stress, dalla depressione e dalla violenza.

Oggi siamo diventati tutti dei playboy, anche se quell’atmosfera di decadenza è svanita da tempo. Nella lotta contro il Coronavirus, il telelavoro è diventato un dovere etico.

Questo non è l’unico problema. Sullo sfondo dell’iconica foto in bianco e nero scattata dal fotografo di Magnum Burt Glinn, vediamo un governante al servizio di Hefner. L’uomo sullo sfondo – non a caso una persona di colore – se ne sta seduto composto indossando il suo completo, e pensa a fare il suo lavoro. Il parallelo con il periodo di pandemia che stiamo vivendo è evidente: adesso i lavoratori in smartworking possono chiamare fornitori e corrieri, i quali suonano al citofono ogni cinque minuti per consegnare pacchi e piatti pronti.

Non che la vita del Corona-playboy sia tutta rose e fiori. Al contrario, anche l’agenda del lavoratore in smartworking è stracolma. Conciliare vita e lavoro è una cosa, ma durante il lockdown si aggiungono le incombenze domestiche, per non dimenticare l’istruzione e la gestione dei bambini. Le scuole sono chiuse non tanto perché sono il luogo in cui il virus si diffonde più facilmente, ma per evitare spostamenti e assembramenti. Lasciare tutti i compiti di cura alla donna di casa non è più un’opzione.

La questione, adesso, è come risolvere il problema degli alloggi durante la pandemia. L’espansione della casa non è sicuro che sia una soluzione, poiché la pressione sulla sfera privata è forte anche in una villetta in periferia. Una proposta interessante è stata presentata dall’architetto del governo fiammingo Erik Wieërs, il quale ha visto il Coronavirus come una ulteriore spinta alla vita collettiva: mentre le unità abitative restano private, le “bolle” di sicurezza anti-Covid sono circondate da altre strutture comuni che ci impediscono un’alienazione totale.

Al contempo, la sfida è creare spazio anche per il personale domestico contemporaneo. Nel sistemare la nostra esistenza, proteggendoci dal Coronavirus, non possiamo più permetterci di essere egoisti come Hefner. Un buon inizio potrebbe essere l’organizzazione di punti di distribuzione in ogni quartiere, al fine di ridurre al minimo gli spostamenti dei servizi di ritiro e inoltro pacchi nelle nostre strade. La creazione di centri di produzione locali sarebbe ancora meglio, ma ciò richiederebbe un cambiamento ancora più drastico nell’economia urbana. In ogni caso, passeggiare fino al punto di distribuzione è una buona scusa per il lavoratore in smartworking per uscire di nuovo.

Immagine di apertura: Cinéma Jolia, The domestic playboy, 2021

Gideon Boie è un architetto-filosofo, ricercatore alla Facoltà di Architettura dell’università KU Leuven. Attualmente vive e lavora a Bruxelles. La sua ricerca si concentra sulla dimensione politica dell’arte, dell’architettura e della pianificazione urbana.

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