Dopo la pandemia, l’ufficio del futuro sarà all’aria aperta?

Spazi comuni, coworking nei parchi, soluzioni per garantire la privacy nei grandi open space. Marianna Fantoni, Jonathan Olivares, Nicola Russi e Angelica Sylos Labini raccontano come stanno cambiando i luoghi del lavoro

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1059, luglio e agosto 2021.

Nicola Russi e Angelica Sylos Labini:
architetti e co-fondatori di Laboratorio Permanente
Jonathan Olivares:
industrial designer
Marianna Fantoni:
direttrice ufficio tecnico Fantoni

Laboratorio Permanente: Durante la pandemia, è stato peculiare osservarecome gli spazi di lavoro, e soprattutto quelli per il coworking, siano stati i più colpiti. Il lavoro è mutato nella sua forma e nei suoi strumenti, si relaziona diversamente con la città, ma dobbiamo ancora capire quale traiettoria sta prendendo. Al momento, per esempio, stiamo lavorando con una grossa società americana per valutare come trasformarne la sede, che avevamo giàprogettato, in uno spazio più rispondente alle nuove modalità di lavoro. Per farlo, si è deciso di intervistare i dipendenti. Ne è emerso che, in media, le persone preferiscono lavorare in presenza tre giorni alla settimana; di conseguenza, lo spazio di cui l’azienda ha bisogno è circail 20 per cento in meno. Le scrivanie si ridurrebbero del 60 per cento e, quindi, non sarebbero più individuali, ma a rotazione e su prenotazione. Si sono resi necessari armadietti personali per lasciare i propri materiali in ufficio. Il luogo del lavoro informale – per riunioni, formazione e laboratori – si è dilatato fino al 50 per cento del totale. Ad aumentare sono anche le aree comuni fino al 160 per cento: caffetterie, centri convegnio zone relax. In generale, lo spazio del lavoro sta diventando un ecosistema che espande enormemente il numero e il tipo di funzioni da progettare.

Marianna Fantoni: Questa è una trasformazione tangibile che si sta verificando anche nel settore dell’arredo per ufficio. La richiesta di micro-architetture per il lavoro informale è aumentata esponenzialmente. Le classiche scrivanie non sono più sufficienti a rispondere alle esigenze attuali. Nei vari settori, le aziende stanno modulando i propri spazi per offrire ai dipendenti degli strumenti che consentano di scegliere quotidianamente forme di lavoro diverse durante la giornata, a seconda delle necessità. La richiesta è che queste trasformazioni avvengano rapidamente, che queste micro-architetture, individuali o collettive, siano facilmente installabili e modificabili, unità flessibili e indipendenti dagli edifici che le contengono. Inoltre, la riconfigurazione quotidiana di questi spazi deve poter avvenire in maniera efficiente, di modo che uno stesso dispositivo sia adattabile a più situazioni. Queste infrastrutture servono, per lo più, a stimolare sinergie all’interno delle aziende e questo non può che avvenire attraverso la creazione di spazi informali per le relazioni umane e professionali.

Jonathan Olivares: Mi ritrovo in quello che dite, tanto che ho deciso di chiudere la sede del mio studio e di esplorare alternative rispetto all’ufficio canonico. L’articolo del New York Times del 2015 di Adam Davidson sul “modello Hollywood” applicato all’organizzazione degli uffici mi ha influenzato in questo senso: i film sono realizzati da società create ad hoc che, alla fine del progetto, sono smantellate. Ho pensato che quel modello potesse fare al caso mio, poiché la tipologia di ciò che progetto – interni, mostre o prodotti – cambia continuamente e richiede capacità diverse dei collaboratori. Costruire gruppi di progetto temporanei funziona e mi evita i compiti manageriali che uno staff a tempo pieno richiede. Lavoro da casa, ma ingredienti-chiave sono i cambiamenti di ambiente e i viaggi: gli incontri con i collaboratori generano energia e poi le idee vengono nei posti più inaspettati. Quindi, la pandemia ha ostacolato il mio modo di lavorare.

Illustrazione Simonetta Capecchi

LP: Concordiamo, gli uffici saranno sempre di più luoghi che stimoleranno gli scambi. Sta aumentando anche la tendenza alla condivisione degli spazi collettivi fra aziende, producendo reti di relazioni. Il pendolarismo cambierà, nel senso che non lavoreremo necessariamente da casa, ma ci sarà la possibilità di farlo nel nostro quartiere, restituendo così alla città una ricchezza di funzioni. Alcune aziende, per esempio, si stanno già attrezzando attraverso spazi per il coworking diffusi nelle città. Pensiamo però che, mentre gli individui hanno meno bisogno di un ufficio, le aziende sembrano avere ancora bisogno del simbolo culturale che sta dietro alla forma architettonica della propria sede.

MF: C’è poi un’attenzione maggiore alla sostenibilità e ai temi legati all’economia circolare: l’importanza del riciclo e la razionalizzazione dei processi sono gli strumenti che abbiamo scelto, come azienda, per rispondere a questa nuova consapevolezza sull’ambiente. D’altro canto, sul mercato sta emergendo una cultura diversa del lavoro, senz’altro più inclusiva rispetto alle esigenze dei dipendenti. Infatti, percepiamo che i layout sono frutto di una progettazione più consapevole e polivalente: ci è capitato, per esempio, di progettare soluzioni per garantire la privacy alle mamme che allattano in ufficio.

Illustrazione Simonetta Capecchi

JO: A permettere la trasformazione di cui stiamo discutendo è la tecnologia, sempre più pervasiva. Stiamo usando questi strumenti da circa 15 anni, ma queste modalità sono state prefigurate ancora 50 o addirittura 60 anni fa. Tutti i software e le piattaforme per il lavoro collaborativo a distanza che abbiamo utilizzato negli ultimi mesi erano già disponibili, dalle videoconferenze al cloud storage.

LP:  Con la pandemia ci siamo anche resi conto che abbiamo bisogno del contatto con la natura, quindi il paradigma del comfort è cambiato: assomiglia sempre meno a uno standard di qualità ambientale e sempre più all’ombra di un albero. Come progettisti, abbiamo immaginato che quella degli spazi di lavoro all’aperto potrebbe essere una tendenza destinata a crescere. Stiamo sperimentando moltissimo in questa direzione: abbiamo appena concluso un progetto che offre postazioni touch down , sale riunioni, salette chat.

Con la pandemia ci siamo anche resi conto che abbiamo bisogno del contatto con la natura, quindi il paradigma del comfort è cambiato: assomiglia sempre meno a uno standard di qualità ambientale e sempre più all’ombra di un albero.

JO: Marianna ha parlato di sostenibilità. Proprio da questo punta di vista, gli spazi di lavoro all’aperto consentono anche di risparmiare energia. Dall’illuminazione alla gestione del microclima interno, una serie di consumi è tagliata drasticamente. Fra gli aspetti positivi c’è anche l’incremento del benessere psicologico. Restano da risolvere il conflitto fra la luce naturale in relazione all’illuminazione degli schermi e l’inquinamento acustico che, nel tempo, riduce la capacità di concentrazione. Per queste ragioni è importante che gli spazi di lavoro all’aperto non replichino le tipologie di lavoro al chiuso, ma che trovino il loro linguaggio. Ora è arrivato il momento di reintrodurre gli elementi di separazione verticale negli ambienti perché ormai siamo abituati a un livello di privacy diverso, ma anche perché la stragrande maggioranza dei dipendenti che mi è capitato d’incontrare negli uffici prima della pandemia la preferiva. Raramente ci è stata data la possibilità di ricominciare, in termini di cultura dello spazio dell’ufficio. La pandemia ci ha fornito la possibilità di farlo, anche per la cultura nel senso più ampio.

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