Domus 1042: Cosa è successo alla pianificazione?

Il Guest Editor David Chipperfield presenta i temi del nuovo numero di Domus e parla dell’idea di pianificazione, che sarà esplorata per tutto il 2020. 

In un modo o nell’altro, gli argomenti esplorati nel prossimo anno di Domus fanno tutti riferimento all’idea di pianificazione, poiché è chiaro che la pianificazione e il coordinamento sono fondamentali per poter reindirizzare le risorse e il contenuto dei nostri sforzi professionali. Questo primo numero introduce il contesto più ampio della pianificazione stessa. Nell’era moderna, l’idea di pprogettazione urbana come disciplina professionale e la sua realtà come inevitabile requisito di sviluppo delle città non si sono mai incontrate facilmente. In seguito al fallimento dei progetti di grande scala del Dopoguerra, sia l’urbanistica sia l’architettura hanno subito un calo di fiducia da parte del pubblico.

Più recentemente, questo disappunto si è accentuato a causa del graduale venir meno del rispetto verso la figura dell’esperto e della resa a una mentalità imprenditoriale secondo cui esistono limitazioni che inficiano le condizioni necessarie alla crescita delle città e dell’economia. Oggi, con uno sviluppo sostenuto da investimenti privati globali e dalla rapida crescita del valore dei terreni, i nostri progetti civili – che si tratti di trasporti pubblici, abitazioni, centri culturali, ospedali o sistemi scolastici – sono in balia delle forze di mercato.

In base a un generale atteggiamento di apatia (in seno ai Governi e all’interno della nostra professione) nei confronti del progresso, della natura e, in definitiva, della salvaguardia dell’identità dei luoghi in cui viviamo, abbiamo costruito su una scala che inibisce persino le preoccupazioni più fondamentali su come pianificare il nostro futuro. Come suggerisce Reinier de Graaf in Padroni dell’universo (a pagina 9), i nostri luoghi reagiscono a un presente costante. Piuttosto che impegnarci in ardite visioni su come modellare il nostro futuro, l’impulso è di guardare sbigottiti al passato per chiederci dove tutto abbia preso la piega sbagliata.

Non ho dubbi sul fatto che gli architetti desiderino indirizzare i loro sforzi verso il bene comune. Nella sua versione migliore, la pianificazione non è un insieme di ostacoli amministrativi: è un potente e articolato meccanismo di mediazione che equilibra le forze del mercato con le necessità e i diritti dei cittadini, e con la salvaguardia del nostro ambiente. Sicuramente nessun’altra parte della società ha un interesse più diretto per l’identità dei luoghi in cui viviamo e lavoriamo, per il potere della comunità e la qualità del nostro ambiente. Questo è il nostro territorio.

Non ho dubbi sul fatto che gli architetti desiderino indirizzare i loro sforzi verso il bene comune. Nella sua versione migliore, la pianificazione non è un insieme di ostacoli amministrativi: è un potente e articolato meccanismo di mediazione che equilibra le forze del mercato con le necessità e i diritti dei cittadini, e con la salvaguardia del nostro ambiente.

Eppure, gli ultimi anni dimostrano che le fratture sociali, politiche e culturali causate da una mancanza di pianificazione possono essere corrette attraverso restrizioni rigide e stimoli, né riallineando la spesa pubblica. Allo stesso tempo, non possiamo più consentire a tale sviluppo senza limiti, motivato da investimenti globali a breve termine, di fissare le priorità. Come designer, architetti e urbanisti siamo in una posizione privilegiata per insistere sul fatto che il nostro ambiente non mercificato – il luogo dove viviamo, dove lavoriamo e dove c’incontriamo – svolge un ruolo fondamentale e positivo nel dare forma alle nostre città. Inoltre, riflette Vittorio Magnago Lampugnani (a pagina 18), gli urbanisti sono le uniche figure che dispongono della competenza necessaria per amalgamare in forma concreta la moltitudine di informazioni, bisogni e aspirazioni che riguardano l’ambiente urbano.

Tutto questo ci è già noto. Sappiamo che quando diamo spazio a questo tipo di ambienti articolati, complessi e solidali, la società può prosperare. È nostra responsabilità lavorare con tutte le comunità per creare modelli di pianificazione più impegnata e attirare l’attenzione su di essi. Prendiamo, per esempio Seoul, il cui Piano per il 2030 (2030 Seoul Plan) è stato progettato in collaborazione tra cittadini e urbanisti. O il caso di Zurigo, esplorato da Christian Salewski e Simon Kretz (a pagina 14), dove un approccio di pianificazione collaborativa tra cittadini, pubblica amministrazione, investitori e urbanisti si è evoluto secondo criteri comuni.

Sebbene si tratti senza dubbio di una soluzione tipicamente svizzera, Salewski e Kretz illustrano il problema critico della partecipazione e dell’impegno locale nel processo di pianificazione e ribadiscono come questo possa rilanciare lo status dell’urbanista quale esperto. Ma laddove in Svizzera i cittadini e le parti interessate collaborano in modo produttivo, altre città affrontano una maggiore resistenza e opposizione. Si tratta di situazioni in cui di solito non vi è alcun vincitore e la pianificazione fallisce.

È nostra responsabilità lavorare con tutte le comunità per creare modelli di pianificazione più impegnata e attirare l’attenzione su di essi. Prendiamo, per esempio Seoul, il cui Piano per il 2030 (2030 Seoul Plan) è stato progettato in collaborazione tra cittadini e urbanisti.

Scrivendo le pagine profetiche di Vita e more delle grandi città, Jane Jacobs si chiedeva se “come persone siamo diventati così inconcludenti che non c’interessa più come funzionano le cose, ma solo il tipo d’impressione esterna immediata e facile che pro- ducono. Se è così, c’è poca speranza per le nostre città e probabilmente per molto altro nella nostra società. Ma non penso che le cose stiano in questo modo. Soprattutto nel caso della pianificazione per le città, è chiaro che un gran numero di persone capaci e serie si preoccupano profondamente della costruzione e del rinnovamento” [traduzione a cura della redazione].

Come ha riconosciuto Jacobs, la questione della pianificazione – dov’è? chi la fa? per chi è? – si sta polarizzando fin da quando abbiamo bisogno di città in cui vivere. Ma dovremmo vedere il nostro momento come un’opportunità per ristabilire le priorità, per considerare come possiamo riposizionare la pratica dell’architettura e il suo ruolo nella società. Ciò non avviene sacrificando il potenziale fisico e formale dell’architettura, o anche la sua importanza rappresentativa, ma focalizzando l’innovazione, la ricerca e l’immaginazione in un modo più responsabile, celebrando l’infrastruttura sociale piuttosto che la spinta commerciale, e collaborando come cittadini.

Con la consulenza di Sarah Handelman.

Immagine di apertura: Thomas Struth, Ulsan 2, Ulsan 2010, dettaglio. Stampa cromogenica, 159,5 x 323,7 cm. © Thomas Struth  

Speciale Guest Editor

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