NABA, la responsabilità dell’immaginazione

Che cos’è il design oggi e come lo si insegna? Il punto con Claudio Larcher, Design Area Leader, tra progetti con i Masai e prospettive post-Covid. 

È durante le prime settimane di deconfinamento che incontriamo Claudio Larcher, Design Area Leader di NABA (Nuova Accademia di Belle Arti), storica accademia privata di arte e design con sede a Milano e, da appena un anno, a Roma. Al centro della chiacchierata, la metodologia e le esperienze sviluppate dal dipartimento di progettazione, le ultime fatiche editoriali, e la necessità di leggere le tensioni del presente con uno sguardo votato ad un futuro aperto e ottimista.

Il panorama della formazione del design diventa sempre più composito. Come descriveresti la specificità di NABA e quale il suo rapporto con la tradizione del design italiano?
NABA opera a Milano, una città che è sempre un punto di riferimento nonostante altri poli abbiano cercato di oscurarne il protagonismo. Abbiamo il 30% degli studenti che arrivano da tutto il mondo, una parte di loro ha ancora il riferimento dei grandi maestri e scopre solo successivamente che il design continua a evolversi e non solo nel settore dell’arredo. Credo fortemente che il ruolo di un’accademia sia quello di produrre cultura, non solo di trasmettere il sapere alle giovani generazioni: un’accademia deve fare ricerca, porsi delle domande, indagare degli scenari e immaginarvi qualcosa legato al futuro, e in questo senso credo che NABA rappresenti una fucina di idee. Fermo restando che la tradizione del design italiano viene raccontata e toccata con mano anche perché quello che facciamo in NABA è il classico learning by doing. È un po’ banale dirlo, ma il design si impara facendolo. 

NABA - Studenti durante un workshop in laboratorio

Nella prefazione del volume “Disegnare un cucchiaio per cambiare la città”, recentemente edito da Quodlibet, dialoghi con Andrea Branzi delineando uno scenario di assoluta frammentazione. Come identificare in questo contesto la direzione di un progetto così da ridisegnare un cucchiaio per cambiare la città?
Il dialogo con Andrea Branzi è avvenuto appena prima del confinamento, eppure fa intravedere la positività insita in un momento di crisi: una fase molto creativa, viva, dove si guarda al futuro evidenziandone le possibilità. Fortunatamente poi il design non ha più l’ambizione di seguire l’adagio di Ernesto Nathan Rogers, altrimenti si rischia che la progettazione sulla scala del tutto diventi un inscatolamento della vita delle persone. Il designer oggi interviene sul cucchiaio, sull’interstizio, sulla piccola cosa, sull’elemento virale, sebbene di questi tempi appaia brutto usare questa parola: contagia positivamente lavorando su un esempio. L’anno scorso abbiamo lavorato su un mercato comunale, un progetto che si può trasformare in modello virtuoso condizionando la progettazione della città.  

L’attenzione alla progettazione sociale caratterizza la visione formativa di NABA, e il vostro progetto Terra è stato selezionato nella categoria Design per il sociale per l’edizione 2019 dell’ADI Design Index. Ce lo racconti?
Da qualche anno abbiamo attivato diversi progetti nel sud del mondo che, prescindendo da qualsiasi forma di assistenzialismo, offrono una possibilità di progettazione molto più interessante rispetto al nostro mondo dove siamo pieni di oggetti. Con Terra abbiamo affiancato l’associazione Oikos in un progetto nella comunità Masai, seguendo il lavoro dell’associazione sul territorio e facendo comunità insieme ad altri specialisti. L’associazione ha una conceria ecosostenibile in mezzo alla savana dove fa attività con la comunità delle donne. Gli studenti hanno sviluppato piccoli oggetti in pelle a partire da materiale non utilizzato e hanno svolto una formazione così che potessero realizzarli loro stesse. Il progetto sta andando avanti, trasformandosi in un volano di sviluppo economico a vantaggio delle donne in un contesto caratterizzato dalla forte disparità di genere. 

Avete raccontato l’esperienza del lockdown nel volume RE-AZIONI. Teach me design online, più un journal intime che un manuale ragionato sulla formazione a distanza.
Attraverso la pubblicazione volevamo esprimere un senso di comunità, una sorta di fotografia di gruppo in un momento critico per tante persone. Il libro è una collezione di piccoli progetti e reazioni di ognuno, ma è anche uno specchio del rapporto di vicinanza tra studenti e docenti, e una testimonianza per capire a ritroso le riflessioni che hanno caratterizzato questo momento storico. 

Il covid19 ha rappresentato un’accelerazione per tante mutazioni in corso, come prenderà forma il cambiamento che ne deriva? Domanda difficile, in un momento in cui si è detto tutto e il contrario di tutto. Credo che quello che faranno gli studenti sarà sempre più difficilmente disegnare una serie di sedie, tavoli e lampade. Ovviamente ce ne saranno ancora alcuni che disegneranno cose e spazi, ma ci saranno anche tante progettazioni che esulano da questo. In questo scenario di complessità, il design sarà sempre più design di servizi, design sociale, funzionale al lavoro in team con altri professionisti per immaginare il futuro. Un paio di anni fa, un mio amico direttore dell’ELISAVA di Barcellona mi ha detto che il designer non è un medico che salva le vite, ma come dice la canzone di Bob Dylan, il progetto ti può dare cinque minuti di serenità e bellezza. Io l’ho sempre pensata in questi termini, oggi però credo che il design possa dare di più. Abbiamo una possibilità, non dico come il medico di salvare vite, ma di immaginare. Oggi il progettista ha anche questa responsabilità.

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