Biennale, Stop Making Sense!

Nonostante le critiche, questa è stata una Biennale memorabile e che probabilmente sancisce la fine di un’epoca. 

La Biennale di Architettura è il primo grande evento internazionale a svolgersi da quando è scoppiata la pandemia. Perfino le cerimonie dell’assegnazione degli Academy Awards o dei Grammy, per quanto economicamente e mediaticamente più rilevanti, si sono svolte in condizioni di forte isolamento e son rimaste, nonostante tutto, degli eventi quasi esclusivamente statunitensi. Pertanto, nel presentare e valutare l’edizione di quest’anno, la domanda che dovremmo porci non é How will we live together?, ma “come abbiamo ri-cominciato a vivere adesso?” 

Paradiso ritrovato
La prima risposta è “da dio!” Tra coloro che erano presenti nelle giornate dell’apertura, il commento più diffuso e sincero era: “questa è la Biennale piu bella! Così tranquilla, con poca gente, finalmente si possono guardar le cose con calma...” Non si è trattato di un’apertura elitista, ma di una partecipazione interessata, motivata, tutt’altro che esibita. Chi era lì ha visto sparire le montagne di visitatori presenziali e presidenziali, gli ex-direttori di museo senza più potere, e ha ricevuto una percezione distratta di quelli ancora importanti sul fondo del sorriso degli occhi degli amici ritrovati dopo tre anni. Grazie alle limitazioni sulle aperture e all’inclemenza del tempo atmosferico, che ha ulteriormente rarefatto numeri e incontri, coloro che erano presenti a Venezia han potuto capire un poco cosa sia stata la meraviglia di questa magica città nei mesi passati.

A questo “mondo senza turismo” (dissoltosi già domenica, quando gli spazi si son fortunatamente riempiti del folto pubblico, che ha confermato che anche quest’anno il numero dei visitatori sarà altissimo) è stata proposta una Biennale finalmente “di ricerca”. Ultimo lascito di Baratta, l’edizione presente è infatti la prima post-archistar, ovvero senza la curatela di un’architetta/o di successo assunto a figura di richiamo, funzionale alla raccolta di fondi per produrre l’esibizione. Il successo di questa Biennale era poi già stato assicurato un paio di settimane prima dell’apertura, quando il governo ha accordato il 12% dell’intero budget per la cultura offerto dal decreto rilancio, all’istituzione veneziana. Riconoscendo così non solo il primato nazionale e il valore internazionale della Fondazione, ma anche orientando quei fondi verso una direzione e degli aspetti cruciali sui quali torneremo in conclusione. 

Installazione di Aravena Uno dei lavori più belli in questa Biennale. Un muro circolare fatto di pali di legno grezzi e ostili che riproducono quelli che venivano eretti dagli spagnoli nei territori conquistati per delimitare un “parlamento”: questo spazio servirà per far parlare tra loro due popoli da sempre in conflitto: i Mapuche e i cileni. Nello specifico, seduti a questo tavolo ci sono un’organizzazione territoriale mapuche e un’impresa forestale cilena. Entrambi vivono nello stesso territorio ed entrambi capiscono che gli scontri non hanno risolto i loro problemi.

“Chileans and Mapuche: Building places to get to know each other (KÜNÜ), Building places to parley (KOYAÜ-WE)”, a cura di Alejandro Aravena, Gonzalo Arteaga, Víctor Oddó, Diego Torres, Juan Cerda). Arsenale, all’esterno. Foto Marco Menghi per Domus

Padiglione Stati Uniti Un bellissimo padiglione che parla della tecnica costruttiva più democratica degli Stati Uniti: il balloon frame. Facile da costruire, economico e figlio di un popolo di migranti. Un sistema costruttivo da sempre fuori dai discorsi sull’architettura finalmente trova la sua dovuta legittimazione. Una vera architettura per l’autodeterminazione abitativa, trionfo del fai-da-te.

“American Framing”, a cura di Paul Andersen, Paul Preissner. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione Russia Sintesi vincente di tutto il lungo iter a cui il padiglione è andato incontro negli ultimi due anni. “Il padiglione parla di sé stesso, dell’idea stessa di istituzione alla Biennale”, ci spiega il curatore Ippolito Pestellini Laparelli. La mostra si suddivide quindi in tre momenti: uno teorico, con i contributi di nomi di punta sul ruolo delle istituzioni raccolto in un volume; uno pratico, con la magnifica ristrutturazione del padiglione da parte dello studio russo-giapponese KASA, e la loro poetica proposta progettuale esposta lungo le pareti tramite illustrazioni; uno interattivo, con videogiochi multi-player a cui giocare al piano terra che unisce comunità fisica e digitale.

“Open!” a cura di Ippolito Pestellini Laparelli. Commissario Teresa Iarocci Mavica. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione Cile Insieme a un team di storici e di studenti di arte i curatori raccolgono 500 testimonianze di vita e le trasformano in 500 quadri a olio che le rappresentano. Le testimonianze riguardano ricordi di vita passata e presente in uno dei più emblematici insediamenti abitativi di Santiago: il José Maria Caro, a sud della circonvallazione periurbana di Santiago. Grazie alla pittura i messaggi diventano universali, e ringraziamo i curatori per questo generoso spaccato di vita comunitaria.

“Testimonial Spaces”, a cura di Emilio Marín, Rodrigo Sepúlveda. Arsenale. Foto Marco Menghi per Domus

Padiglione Filippine Tra i migliori padiglioni nazionali all’Arsenale, qui il team curatoriale filippino-norvegese ci fa conoscere una pratica di autocostruzione e costruzione comunitaria e solidale che avviene nelle Filippine, fondamentale quando i territori vengono spazzati via da tsunami e uragani, con amministrazioni lente o quasi assenti. La biblioteca di legno che vediamo allestita in Arsenale è un progetto realizzato proprio in una di queste comunità che tornerà nel villaggio originario una volta conclusa la Biennale. Vengono prese in considerazione pratiche di questo tipo che avvengono in giro per il mondo, anche in Norvegia.

“Structures of Mutual Support”, a cura di Framework Collaborative (GK Enchanted Farm Community, V. Khadka Jr., Alexander Eriksson Furunes). Arsenale. Foto Marco Menghi per Domus

Padiglione Danimarca La casa dei sogni. Rivoli d’acqua piovana che ricordano le Domus romane, tisane, orti e vasche d’acqua su cui sedersi e rilassarsi. Un’idea di architettura olistica e vicinissima al nostro desiderio di bellezza da vivere nel quotidiano e negli interni.

“Con-Nect-Ed-Ness”, a cura di Marianne Krogh. Commissario Kent Martinussen / Danish Architecture Center. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione Austria Uno dei pochissimi padiglioni ad aver parlato di piattaforme digitali, capitalismo della piattaforma e, nello specifico, di architettura della piattaforma. Ormai le app fanno parte del nostro presente e l’architettura non può non occuparsene. Da vedere.

“Platform Austria” a cura di Peter Mörtenböck, Helge Mooshammer. Commissario Ministero per le Arti, Cultura, Servizio Civile e Sport – Sezione Arti e Cultura. Foto Stefano Rossi

Padiglione del Libano Nato da una ricerca sugli ulivi centenari su cui si dice si sia posata la colomba della fine del diluvio universale la mostra è una raccolta emotiva e artistica di metafore: il silenzio, l’esplosione, la natura. Allestito all’interno dei magnifici Magazzini del Sale, è una mostra completa che non lascia nulla al caso e unisce arte, architettura, poesia e musica. Da vedere.        

“A Roof for Silence”, a cura di Haa Wardé. Commissario Jad Tabet. Evento Collaterale, Magazzini del Sale, Dorsoduro 266, Venezia. Foto Alain Fleischer

Padiglione Irlanda La grande e rumorosa installazione che campeggia nello spazio del padiglione è curata da Annex, un collettivo di architetti, artisti e urbanisti. La riflessione si incentra sulla relazione fra il paesaggio irlandese con le infrastrutture digitali. Negli ultimi decenni, infatti, il Paese si è popolato progressivamente di data center  ultima impennata legata Brexit  arrivando oggi a ospitare il 25% di queste strutture nel continente europeo. Telai metallici, cavi per la trasmissione dei dati e ventilatori definiscono un padiglione dal forte impatto visivo, in cui si sviluppa la ricerca del collettivo. Giulia Ricci

“Entanglement”, a cura di Annex (Sven Anderson / Alan Butler / David Capener / Donal Lally / Clare Lyster / Fiona McDermott). Commissario Culture Ireland. Arsenale. Foto Marco Menghi per Domus

Padiglione Belgio Il padiglione che qualsiasi architetto può apprezzare: una rassegna in forma di libidinosi modellini in carta e legno di oltre 40 progetti realizzati nelle Fiandre. Il soggetto sono i comuni edifici a schiera fiamminghi (Vallonia non pervenuta).

“Composite Presence”, a cura di Bovenbow Architectuur. Commissario Flanders Architecture Institute. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione Repubblica dell’Uzbekistan Grande atteso di quest’anno e per la prima volta alla Biennale (con tanto di mega yacht attraccato in Laguna), il padiglione uzbeko si affida a un team curatoriale d’eccezione – una cordata tra la Union of Architects of the Republic of Uzbekistan, il Tashkent Institutte of Architecture and Civil Engineering ed ETH Zurich – per parlare di mahalla, gli agglomerati di case tradizionali nonché spazi comunitari che possono ospitare dai 150 ai 2.000 abitanti e che sono a rischio di estinzione con la nuova urbanizzazione del Paese. L’allestimento effimero è fatto di tubolari gialli che ne rappresentano i profili, unito a un lavoro audio che è diventato un disco in vinile già introvabile e un lavoro fotografico di Bas Princen.

“Mahalla: Urban Rural Living”, a cura di Emanuel Christ e Christoph Gantenbein / ETH Zurich, con la ricerca di Victoria Easton. Arsenale. Foto di Marco Menghi per Domus

Padiglione V&A Preso dal Guardian come l’unico esempio di buona curatela (guarda a caso), il padiglione del Victoria & Albert Museum è una mostra in forma classica che parla di moschee a Londra come esempi di luoghi nati dal basso, relativamente spontanei e comunitari, riportando a Venezia parti di moschee storiche in scala 1:1.

“Three British Mosques”, a cura di Shahed Saleem, Christopher Turner, Ella Kilgallon. Arsenale. Foto Marco Menghi per Domus

Padiglione Gran Bretagna Una riflessione sull’inesorabile privatizzazione degli spazi pubblici nel Regno Unito, e sulla perdita di spazi per la collettività come il pub, per via del Covid. Il padiglione, molto scenografico usa il Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch come metafora, un po’ cervellotica, del senso che svolge oggi lo spazio pubblico privatizzato. Una via di mezzo tra inferno e paradiso.

The Garden of Privatised Delights”, a cura di Manijeh Verghese e Madeleine Kessler / Unscene Architecture. Commissario Sevra Davis / Direttore di Architettura, Design e Moda al British Council. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione Israele Inaugurato in giorni molto difficili per Israele, il padiglione tocca un tema universale in modo chiaro e toccante: il contraddittorio rapporto con gli animali e con la terra agricola della cosiddetta “terra del latte e del miele”, la regione compresa fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, terra santa e promessa e il contesissimo territorio di Israele e Palestina.

“Land. Honey. Milk”, a cura di Dan Hasson, Iddo Ginat, Rachel Gottesman, Yonatan Cohen, Tamar Novick. Commisari Michael Gov, Arad Turgeman. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione Argentina “Nella casa infinita non si entra, si è sempre al suo interno”. Con un allestimento molto semplice e suggestivo, la casa infinita è un collage di progetti – realizzati e non – di case popolari in Argentina (ma che potrebbero appartenere a qualsiasi altro paese) e che rappresentano l’abitare collettivo.     

“La Casa Infinita”, a cura di Gerardo Caballero. Commissario Juan Falú. Arsenale. Foto di Marco Menghi per Domus

Padiglione Centrale Una successione di allestimenti spettacolari che partono idealmente dalla scala umana fino ad arrivare al sistema solare e oltre. Un accumulo di progetti e ricerche firmati dai protagonisti intellettuali contemporanei del mondo del progetto: da vedere con pazienza poiché non sono sempre supportati da una comunicazione facile. “Il senso di comunità si sta erodendo di fronte al crescente individualismo, che a sua volta porta a un ulteriore isolamento, ma nuove forme di interazione tra individui e tra individui e altre specie stanno compensando parte di questa solitudine”, si legge nell’introduzione.

“How will we live together?”, a cura di Hashim Sarkis. Arsenale – Corderie e Artiglierie. Foto Marco Menghi per Domus

Padiglione Repubblica di Corea Il padiglione è convertito in un incubatore internazionale di pensiero radicale in cui si immagina la scuola del futuro (piena zeppa di regole comportamentali): uno spazio aperto, accogliente, con un tappeto di fieno, dove potersi soffermare in una placida stanza di carta con tanto di prese elettriche.

“Future School”, a cura di Hae-Won Shin. Commissario Arts Council Korea. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione Giappone Una comunissima e anonima casa di legno giapponese viene smantellata, le sue parti catalogate, e spedita a Venezia per la Bennale. La ricostruzione è accidentata a causa delle difficoltà del Covid e reinterpretata in modo fantasioso, portando con sé questo importante messaggio: “Le tue azioni non sono soltanto tue. Ognuna di esse, per quanto banale, è il risultato di innumerevoli azioni cumulative nate dalle nostre relazioni reciproche. Pertanto, è assurdo affermare che le nostre azioni appartengono esclusivamente a noi stessi”.

“Co-ownership of Action: Trajectories of Elements”, a cura di Kozo Kadowaki. Commissario The Japan Foundation. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

Padiglione UAE Gli Emirati Arabi Uniti decidono di abbandonare il cemento e si interrogano su quali possano essere i materiali alternativi: propongono il sale, antico materiale da costruzione usato ad esempio nella città di Siwa in Egitto. Sale non estratto dal suolo (processo non sostenibile da un punto di vista ambientale) ma cristallizzato come nelle saline dette sabkhah. Il progetto è una ricerca portata avanti dagli scienzati di tre università: la New York University Abu Dhabi, Università di Tokyo e l’American University di Sharjah.

“Wetland”, a cura di Wael Al Awar e Kenichi Teramoto. Commissario Salama bint Hamdan / Al Nahyan Foundation. Arsenale. Foto di Marco Menghi per Domus

Padiglione Romania Che vita fanno gli expat romeni in Europa? Un viaggio nelle vite di persone normali: un rapper, una comunication manager, un contadino, in paesi europei come la Spagna. Nel 2007, infatti, 3,4 milioni di persone hanno lasciato il paese, mentre l’immigrazione del paese quadruplicava. Quali, le implicazioni urbanistiche di questo processo? Il tutto raccontato da Away, il reportage di Teleleu, dal progetto curatoriale Fading Borders e dalla ricerca Shrinking Cities Romania.

“Fading Borders”, a cura di Ştefan Simion e Irina Meliţâ. Commissario Attila Kim. Giardini della Biennale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi per Domus

V-A-C Zattere L’istituzione culturale di Mosca diretta da Teresa Iarocci Mavica e Leonid Mikhelson affida per la sua sede veneziana a Joseph Grima che in occasione della Biennale ha organizzato la mostra-laboratorio-residenza temporanea “Non-Extractive Architecture: On Designing without Depletion”. Gli spazi della Fondazione, da poco ristrutturati, ora ospitano laboratori di falegnameria, stanze espositive e biblioteche mobili per i residenti invitati a partecipare, all’insegna dell’autocostruzione, della condivisione del sapere e, soprattutto, del riuso e riciclo in architettura. La residenza durerà sei mesi, mentre il lavoro espositivo e di ricerca sarà in itinere e continuerà tutto l'anno.

“Non-Extractive Architecture: On Designing without Depletion”, a cura di Space Caviar. Collaterale, V-A-C Zattere, Dorsoduro 1401, Venezia.  In questa foto XYZ CARGO MOBILE LIBRARY di N55/ Ion Sørvin and Till Wolfer. Foto Marco Cappelletti

Padiglione Venezia Interamente affidato a Michele De Lucchi che non tradisce le aspettative. In mostra un percorso di modellini di legno per suggerire visioni di un’architettura futura dettata da ordine, armonia e bellezza.

“Sapere come usare il sapere”, a cura di Giovanna Zabotti. Partecipanti Michele De Lucchi / AMDL CIRCLE, Emilio Casalini. Commissario Maurizio Carlin. Giardini della Biennale. Foto Filippo Bolognese

Padiglione Taiwan Gli architetti taiwanesi Divooe Zein Architects da quasi vent’anni realizzano l’utopia che in molti si prestano ad affrontare solo oggi. Al Palazzo delle Prigioni uno dei migliori allestimenti della Biennale 2021. In mostra i lavori dello studio, che adotta un approccio olistico che tiene in considerazione natura, arte, musica, scienza e architettura. Il modellino nella seconda stanza è quello del loro studio realizzato con tecniche costruttive inventate da loro. Lo spazio è molto buio, ma di proposito, per stimolare i sensi animali e rallentare il passo.

“Primitive Migrations”, a cura di Divooe Zein, (Tseng Chih-Wei), Wei-Lun (Frank) Huang. Partecipanti Divooe Zein Architets, siu siu – Lab of Primitive Senses. Supervisore Ministero della Culture, Taiwan. Collaterale, Palazzo delle Prigioni, Riva degli Schiavoni 4209, Venezia. In questa foto: Siu siu–Lab of Primitive Sense by DivooeZein Architects, Taipei 2014. Foto Jetso Yu

Restroom Pavilion Questa mostra ai bagni pubblici della Biennale avrebbe potuto esprimere tutto il suo potenziale se le didascalie fossero state applicate nelle porte interne dei singoli bagni. Detto questo, qui emergono tematiche sensibili, come le normative, gli ecosistemi e le regolamentazioni legate all’accesso all’acqua. Lo vedrete per forza ed è connesso a un’altra esposizione sui bagni come luoghi della protesta allestita al Padiglione Centrale dell’Arsenale intitolata “Your Restroom is a Battleground”.

“The Restroom Pavilion”, a cura di Matilde Cassani, Ignacio G. Galán, Iván L. Munuera. Giardini della Biennale. Foto Marianna Guernieri

Padiglione Canada Molti hanno creduto che non ci fosse nessuna mostra. La porta si sarebbe dovuta aprire tramite un QR code, ma era sempre chiusa. Di curioso c'è che è l’architettura stessa del padiglione a mettersi in mostra, rivestita da un telo verde, un green screen che indaga la presenza distorta dell’architettura nei film, nei documentari e nel mondo virtuale in generale. Benché sia poco, è pur sempre geniale.

“Impostor Cities”, a cura di David Theodore. Commissario Canada Council for the Arts. Giardini della Biennale, foto Marianna Guernieri

Autorevoli critiche negative
Nonostante queste premesse favorevoli i primi giudizi sulla manifestazione sono stati però particolarmente negativi. Voci autorevoli come Oliver Wainwright di The Guaridan e Carolyn Smith di The Architectural Review hanno letteralmente demolito l’impianto e la forma della mostra e aggredito dalle basi la struttura stessa dell’istituzione. Le accuse sono state quelle di proporre un’esposizione che non riesce ad andare oltre alla scelta di assortimento di caramelle preferite da parte del curatore e l’incapacità di gestire un evento basato essenzialmente su istallazioni temporanee senza tener conto del passaggio globale verso un uso attento delle risorse, che preveda un reimpiego dei materiali e la rinuncia agli sprechi e spostamenti inutili. Non provando nemmeno a pensare cosa mai queste voci avrebbero da dire sulla futura edizione settembrina del Salone del Mobile, la loro opinione condivisa è che sarebbe stato meglio non ospitare affatto una biennale quest'anno, ma sfruttare la pausa per riallinearsi su quello che sarà veramente il nostro modo di vivere insieme nel futuro, proprio a partire da Venezia.

A queste critiche va aggiunto il biasimo di chi (Italia Nostra, Associazione Bianchi Bandinelli, ANAI Associazione Nazionale Archivistica Italiana, Emergenza Cultura) fuori Venezia, ha accusato la scelta da parte del Ministero della Cultura di premiare il grande polo di eccellenza lagunare a discapito delle piccole realtà diffuse, e, dei molti che in città, hanno visto in questo finanziamento un’ennesima mossa verso la deriva turistica, che dimentica di rivolgere risorse alla residenzialità e ai servizi per la laguna languente. Quello che è certo è che il vissuto post-pandemico e queste critiche accurate esplicitano il compimento di un’epoca. Le Trente Glorieuses (1990-2020) sono trascorsi e assistiamo alla fine di un ciclo. “Poiché ogni epoca non solo sogna la successiva, ma sognando urge al risveglio – per dirlo con Benjamin – con la crisi cominciamo a scorgere i monumenti come rovine prima ancora che siano caduti”. 

Biennale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione centrale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi

Monumenti senza fatiche
Quali sono dunque le conseguenze dall’interpretare come rovine i monumenti eretti ai Giardini, tra le colonne delle Corderie, sulla piazza d’acqua dell’Arsenale? Intanto il rilievo di una difficoltà cruciale: come ci rapportiamo ai nuovi orizzonti etnico-sociali che dovrebbero permetterci di uscire dal colonialismo politico-culturale occidentale? Se a vent’anni da Platea dell’Umanità in una Biennale d’arte queste questioni sembrano maturamente risolte, nel mondo dell’architettura ci dobbiamo chiedere ancora se i magnifici tronchi di Aravena sono l’ennesimo atto di appropriazione culturale, o se piuttosto stiano li a tracciare la prospettiva d’uscita, verso un orizzonte nel quale a partecipare sarà chiamata direttamente la comunità Mapuche, senza intermediazione dell’autorialità architettonica (in questa prospettiva paiono meno spettacolari, ma sicuramente più consone, le splendide partecipazioni della Tailandia e delle Filippine, e di architetti nativi canadesi nel 2019). Eppure proprio in questa formidabile istallazione c’è forse una prima risposta al ganglio di questioni che stiamo mettendo sul tavolo tutte assieme. Nei mesi pandemici si è parlato a lungo dei mestieri nel campo della cultura, della necessità di tutelarli, di supportarli, di farli evolvere e soprattutto di farli riconoscere. Ebbene senza lo straordinario lavoro di Luigi (leone) D’Oro, quella roba lì non solo non ci sarebbe, ma non starebbe nemmeno in piedi. Il lettore si chiederà chi egli sia… e noi non lo chiariremo, per il semplice fatto che non conosciamo i nomi di tutti quelli che han montato quell’affare.

Nel mondo dell’architettura ci dobbiamo chiedere ancora se i magnifici tronchi di Aravena sono l’ennesimo atto di appropriazione culturale, o se piuttosto stiano li a tracciare la prospettiva d’uscita, verso un orizzonte nel quale a partecipare sarà chiamata direttamente la comunità Mapuche, senza intermediazione dell’autorialità architettonica

E non è per riconoscerne la presenza, ma perché ci han messo la propria esperienza acquisita nel tempo, le loro capacità inventive, la loro “conoscenza tacita” direbbe Polany, che andrebbero nominati. Ci basterà dire che nella presente edizione, a parte le fotografie del contraddittorio padiglione americano – in particolare quelle efficacissime di Chris Strong – e qualcosa (ma non molto relativo al lavoro in edilizia) nel padiglione rumeno e in alcune stanze del padiglione centrale ai Giardini, è sorprendente come possa essere assente la quesitone del lavoro. In tutti questi anni (qualcosa mi può essere sfuggito e sarò più che felice se il lettore-trice-tori/e mi aiuteranno a ricostruire i casi di cui mi son dimenticato) il solo padiglione della Polonia del 2014 ha rappresentato e discusso la questione del lavoro in edilizia, nella costruzione di edifici e di spazi, nella manutenzione di interni ed esterni. Ciò significa che la questione cruciale nella società del nostro tempo e le sue conseguenze sono state interamente eluse dalla mostra, non solo oggi, ma nei decenni… Non è certo colpa dell’istituzione Biennale se a fronte di una sovraesposizione della profuga, dell’emigrante, dei rifugiati, abbiamo una straordinaria sotto rappresentazione del mondo del lavoro e degli esseri umani che faticano in architettura. 

Biennale di Architettura, Venezia 2021. Corderie. Foto Marco Menghi

Display Cambridge’s style
Tra i bagliori di un’esposizione che torna – dall’epoca di Richard Burdett – a essere interessata alla pianificazione, all’ingegneria e all’urbanistica per salvare il mondo, c’è qualcosa che non funziona. Qualcosa di prettamente legato a cosa vuol dire esporre un’indagine, uno studio e il suo incontro con la dimensione ineludibilmente “estetica” dell’architettura (nel senso di arte della percezione, piuttosto che di gusto del bello). La scelta del curatore è stata quella di portare lo stile delle esposizioni che trovate nelle hall della GSD di Harvard o dell’MIT dove questo tipo di diagrammi-espositivi e di invenzioni istallazioni info-tecno-logiche compaiono, però solo una o due per volta, e per la durata di qualche settimana, prima d’infilarsi in corposi volumi di riferimento accademico.
Ma se ne hai centinaia (abbiamo contato e letto – si li ho letti tutti! - non meno di 800 testi in forma di poster e lunga didascalia da leggere se si vuol comprendere l’intera esposizione) l’interlocutore risulterà sopraffatto in una fantasmagoria da esposizione universale.

Biennale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione Italia. Foto Marco Menghi

Certo tutti i gusti sono accontentati, certo l’esperienza è coinvolgente e totalizzante, certo l’idea è che alla mostra si torni più volte (anche se a 25 euro a botta… e pur con le riduzioni, non è proprio per tutte le famiglie post-pandemiche), ma allora ritorniamo alla casella di partenza: vuoi salvare il mondo e poi lo fai facendo muovere masse di cose e persone senza tener conto di come queste lo fanno e le producono? Nella fantasmagoria si perde coscienza della parzialità del mondialismo rappresentato. Pochi sembrano essersi resi conto che alla mostra di quest’anno mancano tutti i più grandi paesi del mondo: la Cina (assenza provvisoria?), l’India, il Canada (padiglione chiuso, programma on line), la stessa Russia (la cui partecipazione essenzialmente centrata nell’importante restauro del padiglione e nella affissione delle pubblicazioni della ricerca svolta nel corso dell’anno di pausa), per tacere di tutti i paesi africani e oceanici (con l’eccezione dell’Australia anch’essa sostanzialmente on line e dell’Egitto, nonostante nessuno ci sia andato  a far ricordare i caso di Patrick Zaky o di Giulio Regeni).

Insomma ancora una volta chi ci spiega come dovremo vivere non è solo l’occidente, ma è addirittura il blocco atlantico. Ne emerge la proposta di una logica quasi da modernismo postbellico, dove per l’ennesima volta ci viene proposto di sposare delle tecnologie e logiche senza affrontare mai il problema della loro verifica. Eppure se qualcosa il secolo delle biennali ci ha insegnato è che non puoi continuamente lanciare innovazioni e prospettive, far progetti dimostrativi, denunciare situazioni e non consegnare mai uno straccio di prova che funzionino, o che presentino delle pesanti contraddizioni nel tempo.

La vera innovazione non è suggerire l’ipotesi del nuovo, ma consolidare nel mercato (delle merci, della ricerca, del tutto) qualcosa capace di affermarsi come conveniente a condizioni date. Non deve dire “qualcosa di sinistra”, deve fare qualcosa di utile, di saggio, di pratico, di bello, di economico, di consapevole delle conseguenze rispetto all’esistente! Non deve riempire sale con la plastica, in cui poi mette delle ampolle di plexiglass, che contengono delle cose di plastica, per dimostrare che nei mari c’è la plastica, e questo “è un problema!”.
C’è un’evidente perdita di credibilità da parte dell’architettura e una chiara confusione di ruoli se si fa produrre una mostra sull’architettura non estrattiva – probabilmente l’affermazione più radicale in questo momento a Venezia – a un estrattore di gas; o se si pretende di proporre l’habitat rurale dei mahalla uzbeki come ecosistema “da opporre alle mega città” e il tuo committente ti presenta il suo Plan B da 73 metri e 5 piani attraccato in riva Sette Martiri. 

Biennale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione Russia. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi

Anche di tutti questi aspetti non è responsabile l’istituzione Biennale, ma essa, le sue genti, quelli che ci lavorano, quelli che ci hanno i contratti di appalto, subappalto, e via giù, giù, fino alla fine della notte… sono i più grandi esperti nella storia delle mostre, sanno pulirla, montarla, smontarla, illuminarla, spegnerla. Sono l’avanguardia del futuro, sono lo standard intercontinentale che merita il 12% dell’intero budget della cultura italiana (e a nostro giudizio è pure poco!).
Siamo sicuri che ad essi sia chiaro quanto oggi certi meccanismi della rappresentazione non siano più efficaci e forse nemmeno accettabili. Che il problema non è la seduzione dell’infografica e il potere del display, ma interrogarsi intorno all’incontro con l’interlocutore-ice del discorso.
Non sappiamo proprio cosa ci possa essere più chiaro del fatto che denunciare e dimostrare fenomeni non serva a nulla.
Perfino la magnifica ricerca di Giulia Foscari – ecco un’ottima suggestione per la prossima curatrice, enfant prodige della tradizione veneziana dell’accogliere – potrebbe mai avere conseguenze e ascolto tra gli studi dei ricercatori antartici che il suo lavoro presenta? Gli sconquassi macchina di Arcangelo Sassolino non sembrano averli perturbati per un decennio. Veramente tutto questo discorso di architetti per architetti, a partire dal punto di vista degli architetti e “dell’architettura come medium che fa la differenza”, incontra l’interesse delle altre discipline e di quei saperi e professioni di tutte quelle discipline coinvolte, acclamate e evocate in aiuto e a riferimento? C’è veramente tanto da fare per capire cosa vada mostrato, come vada mostrato, a qual fine, per chi, per quanti, quando… Sappiamo solo che dovrà esser soltanto qualcosa di necessario e senza impatto e dove esporlo: qui a Venezia, in Biennale, tra Arsenale e Giardini.

Correte!
È quindi cruciale che veniate a vedere questa esposizione, perché è l’ultima prima che la Biennale smetta di andare a Cambridge, Massachusetts a cercare le risposte. D’ora in poi, siam tutti convinti – come ha già mostrato e la “stra-ordinaria” mostra dell’anno scorso su iniziativa del nuovo presidente – ripartirà dal proprio formidabile archivio e diventerà quel centro di esposizione di ricerche che tutti si attendono. Dotato di un saper fare espositivo insuperabile, ricostruirà in modo fertile e corretto la relazione con il lavoro manuale e darà vita a un modo diverso di intendere la manutenzione, il tempo, la visita.
Esporrà e metterà in primo piano le lavoratrici e i lavoratori – senza distinzioni duali e di genere e di grado – che ora sono solo uno sfondo in tenuta nera o scarpe grosse, evidenziando i loro saperi e le loro capacità materiali. Spiegando che quando porti o fai un intervento qui – nella città esempio della possibilità di convivere nella natura – devi avere l’accortezza di prendere conto di tutte le possibilità, di rendere il più lieve e sensato possibile il tuo passaggio sulla terra, e le conseguenze di ogni tuo agire su tutti gli esseri viventi, visibili ed invisibili.

Biennale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione Stati Uniti d'America. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi

Ricorderà – senza rimpianto, ma con coscienza di un obbiettivo da raggiungere – che quando il Beaubourg doveva costruire il modello fruitivo della propria biblioteca venne a prendere ispirazione dall’ASAC, all’epoca un gioiello d’innovazione per i primi archivi multimediali. E metterà in evidenza la storia, suggerendo ai curatori del V&A che non era necessario trasportare dei set televisivi fin qui, quando c’era già stata la ben più radicale esperienza della moschea istallata da Christoph Buchel nella chiesa della Misericordia. Grazie alla quota ricevuta dal recovery fund, si ricentrerà su gli spazi di Arsenale e Giardini per metterli a norma e utilizzarli – come già annunciato – per far finalmente tornare l’archivio in laguna, combattendo il processo di valorizzazione degli spazi temporanei veneziani attraverso dubbie compagnie, di fatto funzionali a innescare il mercato immobiliare e turistico. Creerà lavoratori residenti in città, e darà vita a un modo diverso di intendere l’esporre pensando a trasformare TUTTO in un nuovo sistema dell’arte! In un’alleanza capace di mettere in evidenza la grandezza dell’arte del tempo, quella della manutenzione e della cura, offrendo tutto ciò e i suoi luoghi per accogliere personalità, popoli e figure tangenziali, rimosse, emergenti, da difendere e comprendere. 

È quindi cruciale che veniate a vedere questa esposizione, perché è l’ultima prima che la Biennale smetta di andare a Cambridge, Massachusetts a cercare le risposte.

Rappresentazione delle ricerche
Poi potrà scegliere tra i diversi modelli espositivi che non siano quello attuale della scelta delle collezioni di caramelle a gusti preconfezionati o dei modellini di architetture. A questo proposito ricordiamo il modello Fundamentals, 2014 una (doppia) ricerca generale, articolata in argomenti chiari e definiti direttamente controllati dai (due) curatori, e assegnati a dei “ricercatori” che li sviluppano in dialogo con loro e li espongono all’interno di un allestimento fortemente caratterizzato, e magari predisposto a integrare le diverse sezioni della Biennale (arte, danza, cinema etc.). Oppure la soluzione People meet in Architecture, 2010, una successione di istallazioni-spazi-architetture dal contenuto non necessariamente rilevante, ma che hanno la forza di un’esperienza sensitiva e atmosferica che restituiscono l’essenza dell’architettura come arte spazio – fenomenologica). Esposizioni capaci di non esaurire le forze del visitatore, ma che gli lascino intendere che architettura, urbanistica, pianificazione, design, possono essere dei saperi cumulativi e non intrattenimento tra una collezione di narcisismi, fatti per sostituire il senso di colpa del giro in gondola... 

Immagine di apertura: Biennale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione centrale. Foto Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi