Confine, grenze, frontière: come si abitano questi spazi?

Il tema scelto dalla Svizzera per la Biennale di architettura di Venezia è spaziale e politico al tempo stesso. Quanto mai attuale. Ce ne parlano Vanessa Lacaille e Mounir Ayoub, curatori del progetto insieme a un regista e a un artista

Di confini e di frontiere si parla da qualche anno con crescente animosità, sull’onda delle crisi economiche e umanitarie che hanno intensificato il fenomeno dei flussi migratori e lo hanno reso quotidiano oggetto di dibattito politico e sociale. Le necessità dell’accoglienza sono state contrapposte a quelle della protezione di chi vive nella metà più fortunata del mondo, gli interlocutori più virtuosi hanno cercato di raggiungere soluzioni improntate a equilibrio ed equità. La storia e la definizione della frontiera sono sempre state mutevoli: considerate barriere, o filtro, oppure passaggio.

I termini di questa spinosa questione non sono cambiati con l’arrivo della pandemia, che ne ha però ridefinito gli ambiti di applicazione e le dinamiche, portando a un irrigidimento delle linee di confine ­­– quelle tra spazi privati e condivisi, tra Comuni, Regioni e Stati – per scrivere nuove regole di convivenza, e quindi di vicinato. Sotto questo profilo, la Svizzera è uno straordinario territorio di sperimentazione. Ecco perché la scelta della Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia della proposta curatoriale “Orae – Experiences on the Border” del gruppo di architetti di Laboratoire d’architecture di Ginevra per la Biennale di architettura veneziana, avvenuta nel marzo del 2019, si è rivelata particolarmente intuitiva e di estrema attualità. Lo era già nel contesto politico in cui è avvenuta, lo è stata poi quando Hashim Sarkis ha annunciato il tema della sua Biennale e lo è diventata ancora di più con l’avvento del Covid-19 e con i cambiamenti che ha portato con sé. 

Vanessa Lacaille e Mounir Ayoub dello studio ginevrino, insieme con il regista Fabrice Aragno e l’artista Pierre Szczepski, hanno portato la loro indagine sulla convivenza nell’ambito dei luoghi e delle comunità di frontiera, per capire come vengono vissuti e quale sia il loro potenziale. Volevano individuare la dimensione spaziale e fisica assunta dalla frontiera, capire se la percepiamo in maniera differente, quale rapporto instauriamo con essa. “Il nostro progetto affronta la questione dei territori di confine, le sue rappresentazioni soggettive e la sua narrazione collettiva”, affermano Lacaille e Ayoub. “Abbiamo iniziato la nostra ricerca nel 2019 con un tour di sette mesi per incontrare gli abitanti del confine svizzero. Abbiamo lavorato in situ con loro realizzando modelli di territori di confine”.

Il gruppo ha viaggiato portando con sé plastici e video, un “atelier mobile” che è servito come base di confronto con gli abitanti dei territori di frontiera, per aiutarli a ricostruire la loro visione dei luoghi in cui vivono. Poi sono stati organizzati dei percorsi a piedi con la gente del posto, esperienze che sono state filmate. Questo lavoro è stato ripetuto per una ventina di tappe. Il tempo in più dato dallo slittamento della Biennale al 2021 ha portato a implementare i modelli, i video, i disegni e gli appunti raccolti: i promotori del progetto hanno pensato fosse importante tornare nelle regioni di frontiera per registrare la nuova percezione del confine dopo la pandemia. 

l nostro progetto affronta la questione dei territori di confine, le sue rappresentazioni soggettive e la sua narrazione collettiva

“In questi due anni abbiamo incontrato 83 persone”, raccontano. Abbiamo lavorato insieme per trovare un metodo per lavorare su un terreno preciso, la frontiera, per costruire una conoscenza collettiva. Non abbiamo una risposta su come trattare questo territorio, quanto una fotografia sullo stato di fatto e una richiesta di trattarlo come un vero e proprio territorio abitato da persone”. Qualche punto comune tra le differenti realtà trovate? “Che è un luogo dove c’è sempre un ‘altro’, di vicinato, cosa che ne fa uno spazio profondamente pubblico, con soggetti differenti, con cui magari non si hanno affinità, che devono condividere lo stesso spazio. È un luogo di alterità e non di identità. Dal punto di vista architettonico, ci sono elementi comuni come i casinò, gli outlet, le strutture di confinamento, centrali energetiche, chiatte, anche aeroporti, tipologie che traggono beneficio da differenze economiche tra i Paesi.

Viene da pensare che ai confini si metta quello che non piace, anche se necessario. Un’altra caratteristica sono i grandi movimenti dei lavoratori frontalieri”. Interessante è capire come viene vissuta da chi ci abita. Qui una risposta univoca è stata trovata. Vanessa Lacaille e Mounir Ayoub hanno registrato la sensazione comune che, dato che si vive quel territorio come ‘terminale’, non ci sia interesse a ultimare progetti precisi per la sua riqualificazione, di non essere visti nelle proprie esigenze. Questo almeno è emerso nel corso dei laboratori di scrittura collettiva tenuti nell’unità mobile, trasformato in un forum su ruote nel corso della pandemia.

Perché questo tema è così importante per leggere il nostro tempo? “Nel XX secolo, è senza dubbio nelle metropoli che le grandi questioni territoriali sono state osservate più chiaramente”, precisano. “Crediamo che i confini costituiscano un laboratorio per l'osservazione, più preciso di altri (in Italia pensiamo a Lampedusa) dei fenomeni territoriali del XXI secolo e che questa sia una delle sfide che la nostra generazione di architetti deve affrontare. Ed è sicuramente politica. Con il nostro progetto abbiamo cercato di invogliare ad andare in questi luoghi a studiarli, gli architetti non ci vanno molto normalmente. Il nostro camion ha costituito uno spazio architettonico e politico mobile sulla frontiera”. E la pandemia, quali altre sfide ha generato? “I problemi più significativi che ci troviamo ad affrontare ora non sono diversi. Sarkis ha scelto il tema della sua Biennale – “How will we live together?” – prima della pandemia: la domanda che pone comprende molto più delle questioni che dobbiamo affrontare in questi particolari momenti. Lo stesso vale per la frontiera. Crediamo che il ricorso all’architettura serva a immaginare il futuro, non a rispondere alla crisi del momento”. 

Crediamo che i confini costituiscano un laboratorio per l'osservazione, più preciso di altri, dei fenomeni territoriali del XXI secolo e che questa sia una delle sfide che la nostra generazione di architetti deve affrontare
Immagine in apertura:
Padiglione Svizzera alla Biennale di Architettura 2021. @ Giulia Di Lenarda e Giorgio De Vecchi
Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram