Biennale. Nel Padiglione danese c’è tutta la pioggia di Venezia

Intervista a Lundgaard og Tranberg Architects sul loro progetto, dove l’acqua circola liberamente per mostrare come in natura tutto sia collegato.

Evaporazione, fotosintesi e percolazione. Quest’anno nel Padiglione della Danimarca, progetto dello studio di Copenhagen Lundgaard & Tranberg Architects, a cura da Marianne Krogh, l’acqua – quella piovana di Venezia – è la vera e unica protagonista. Gli architetti di Copenhagen, famosi per il dormitorio per studenti a Tietgen (2007) e la Royal Danish Playhouse (2008), hanno stravolto il padiglione ai Giardini, trasformandolo in un luogo dove l’elemento liquido unisce attenzione per l’ambiente e convivialità, in un flusso continuo e circolare. 

Qual è il tema principale del padiglione? 
Quest’anno, il tema del padiglione danese è Con-nect-ed-ness esplorato attraverso l’acqua. Nel padiglione, cerchiamo di rendere visibile la circolazione dell’acqua come un modo per dimostrare come tutto sia collegato. L’acqua è ovunque sul pianeta, fa parte di un sistema dinamico a cui la mostra si collega raccogliendo l’acqua piovana di Venezia. L’acqua viene accolta all’interno, messa in scena, percepita e, infine, fluisce fuori dal padiglione. Mentre esplorano i vari spazi espositivi, i visitatori possono diventare parte attiva di questo ciclo bevendo una tazza di tè preparato nel padiglione stesso con foglie di verbena. Attraverso il proprio corpo, i processi di evaporazione, fotosintesi e percolazione, le persone e l’acqua si impegnano in un processo reciproco: ci si incontra e influenza a vicenda in un’esperienza sensoriale immediata che può aiutarci a collocare il nostro ruolo in un tutto più grande.

Le cisterne per la raccolta di acqua piovana del padiglione danese. Foto Luca Delise

Proviamo a definire il progetto in poche parole.
Per rispondere, vorremmo citare Josefine Klougart: “Quando parliamo, siamo la natura che parla; quando pensiamo, siamo la natura che pensa; quando sottomettiamo la natura là fuori, siamo la natura che sottomette qualcosa dentro di noi.” (da: Connectedness – An Incomplete Encyclopedia of the Anthropocene, 2020)

Perché l’acqua?
L’acqua è il fondamento su cui tutti noi poggiamo e la quantità d’acqua nel mondo è costante. L’acqua che bevete oggi potrebbe essere passata attraverso un fiume in Alaska 20 anni fa. In questo modo, il flusso ciclico e l’intrinseca illimitatezza dell’acqua collegano passato, presente e futuro, ed escludono ogni possibilità d’isolarci gli uni dagli altri. L’acqua porta con sé il tempo, il disastro, la vita, gli altri. Scorre attraverso i nostri spazi condivisi. Per questo, è un “materiale” molto potente quando il tema è la connessione.

Le connessioni con altre persone, con altri campi di competenza, con l’ambiente costruito, la natura e il pianeta più in generale sono alla base della nostra pratica.

Quali materiali avete usato e perché?
Oltre all’acqua, che resta il materiale principale del padiglione, abbiamo usato tubi in PVC nero, arancione e trasparente e serbatoi d’acqua in polietilene bianco. Questi materiali standard hanno una loro estetica meccanica che contrasta con l’esterno del padiglione e gli spazi interni. Abbiamo usato legno di pino locale non trattato per le cucine, le piattaforme e le passerelle e per le strutture a traliccio che sostengono le fioriere. Il calore del materiale funziona bene con il pavimento di cemento grezzo e le pareti e i soffitti bianchi. Per creare il flusso dell’acqua sul pavimento dell’edificio Koch, abbiamo impiegato un sottile strato di ferrocemento su un accumulo di blocchi di polistirolo prefabbricati che assicurano la giusta topografia al flusso d’acqua sul pavimento. Nella Koch Hall, che ha una forma quasi cubica, abbiamo sospeso un telo di tessuto bianco che raccoglie l’acqua spruzzata dai tubi del circuito sovrastante. Ci ha incuriosito molto questo elemento, usato come compressore spaziale, anche se allo stesso tempo è abbastanza trasparente, quasi come una nuvola. Nella grande Brummer Hall, luogo d’interazione e contemplazione, le pareti e le nicchie sono state rivestite da un materiale grigio-argento: accolgono i visitatori all’ingresso dello spazio con un gesto morbido in contrasto con le tubature nere. Anche il tessuto rosa che ricopre i cuscini del divano contribuisce a creare ambiguità tra un’atmosfera confortevole e familiare e pavimento staccato al centro della stanza che crea instabilità.

Al padiglione danese è possibile sorseggiare del tè preparato nel padiglione stesso. Foto Hampus Berndtson

Cosa vuole dire Con-nect-ed-ness per voi come architetti e nella vostra pratica?
Le connessioni con altre persone, con altri campi di competenza, con l’ambiente costruito, la natura e il pianeta più in generale sono alla base della nostra pratica. Ingegneri, architetti del paesaggio e artisti sono solo alcuni dei professionisti con cui ci colleghiamo nel nostro lavoro. A un altro livello, anche progettare spazi che creino un’interazione sociale significativa tra le persone è alla base della nostra pratica. Inoltre, quando costruiamo un edificio, cerchiamo sempre di collegare il nostro progetto con le risorse della natura e di essere molto consapevoli e responsabili. In una prospettiva ancora più grande, disegniamo edifici fatti per durare centinaia di anni. In questo modo, stabiliamo connessioni anche con le generazioni future.

Nel libro Con-nect-ed-ness avete scritto che, come architetti, siete anche interpreti e narratori. In che modo? 
Quando, come architetti, iniziamo un nuovo progetto, incontriamo un luogo per la prima volta. Potrebbe essere un ambiente naturale indisturbato, un deposito abbandonato o un edificio destinato alla trasformazione. È sempre un incontro con qualcosa, mai con il nulla. Ogni luogo ha la sua atmosfera e ha la sua storia. Spesso è grandiosa e travolgente. Altre volte, all’inizio può rivelarsi sfuggente. Se, però, continuiamo ad ascoltare, ogni sito, prima o poi, comincia a parlare. È sempre il sito a dettare il risultato, non cerchiamo mai di imporre qualcosa che non sia radicato nel luogo. In questo modo riveliamo, interpretiamo e aggiungiamo nuove storie a ciò che già esiste. 

Il libro Con-nect-ed-ness (An Incomplete Encyclopedia of the Anthropocene) di Marianne Kogh.

Un esempio costruito di questo atteggiamento?La Royal Danish Playhouse a Copenhagen è un esempio di come i vecchi magazzini lungo il fronte del porto abbiano dettato la forma del pesante volume dell’edificio che ospita spazi per le performance simili a grotte. Inoltre, l’edificio evoca e valorizza la sua posizione di fronte al porto attraverso una grande terrazza di legno che incoraggia la gente a passare il tempo e a stare a contatto con l’acqua. Infine, l’edificio stesso è fatto per narrare storie attraverso gli spazi che ospitano performance di livello mondiale, progettati specificamente per ospitare la parola orale.

Come architetti, qual è il vostro contributo a migliorare la connessione delle persone tra loro, e con la natura?
Quando ci impegniamo con un luogo, il nostro obiettivo è quello di generare vita. Il nostro ruolo è creare qualcosa di nuovo e facilitare l’interazione sociale tra le persone. Non molto tempo fa, con questo obiettivo in mente, abbiamo progettato una scuola situata tra la città di Copenhagen e una grande riserva naturale protetta. Una struttura fatta di anelli di cemento definisce un gruppo di spazi occupato durante il giorno da bambini e adulti. Intuitivamente, i bambini possono percepire le strutture circolari dell’atrio come se fossero alberi che circondano una radura in una foresta. Ci piacerebbe che provassero un senso di calma toccando le colonne, a contatto con la superficie fresca e piacevole del cemento colato in casseforme lisce. Mentre giocano nel corso della giornata, forse seguono i raggi del sole che attraversano gli spazi e ricordano loro il modo in cui la luce illumina in un paesaggio naturale. Anche se una scuola è uno spazio costruito, creato per fornire un riparo migliore di una radura dagli elementi, entrambi forniscono esperienze simili e fondamentali degli spazi e della loro interconnessione. Se i bambini possono realizzare un senso di sé in relazione al loro ambiente fisico, queste esperienze possono rimanere con loro e ispirare il modo in cui percepiscono il mondo per il resto della loro vita.

Quanto è importante il rapporto tra architettura e natura nella vostra pratica?
La nostra premessa di base è che l’architettura è sempre in relazione con la natura, anche quando questa non è visibile. La natura è il fondamento della vita stessa, la natura è energia, ritmo, equilibrio. Quando costruiamo, idealmente, le persone sono in grado di percepirlo: forse nel modo in cui i volumi dell’edificio si condensano e si espandono, nel modo in cui la luce fluisce in uno spazio o nella sensazione dei materiali naturali a contatto con la pelle. Il collegamento può essere vibrante, permettendoci di entrare in contatto con il cambiamento costante che sta alla base della natura e con i cicli e i sistemi naturali interconnessi del mondo.

Come vivremo insieme tra di noi, e insieme alla natura, nel prossimo futuro?
Il primo passo per immaginare come vivremo insieme e in connessione con la natura nel futuro è quello di (ri)descrivere, chiarire, scoprire e, in questo modo, raggiungere una comprensione comune senza allontanarci gli uni dagli altri. Nei nostri sforzi per controllare il mondo, per secoli l’abbiamo suddiviso in diverse parti, senza grande interesse a collegarle tra loro o ad assumerci la responsabilità delle nostre azioni. Quando si tratta di creare una nuova base per la nostra vita insieme, l’architettura ha un potenziale unico. Nel padiglione, cerchiamo di rendere visibile la circolazione dell’acqua per dimostrare come tutto sia collegato. Questa esposizione è un passo verso un’esperienza sensoriale immediata, un’esperienza di interazione con altre persone che può aiutarci a capire qual è il nostro posto in un insieme più grande.

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