L’architettura al lavoro

La ricerca promossa dal collettivo milanese Gizmo è la rappresentazione di come il lavoro dell’architetto sia oggi innanzitutto una condizione più complessa di quella che tradizionalmente associamo all’idea di “genio creatore”, con tutta la sua aura di autorialità e responsabilità.

Florencia Andreola, Mauro Sullam, Riccardo M. Villa (a cura di), Backstage. L'architettura come lavoro concreto, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 208
Florencia Andreola, Mauro Sullam, Riccardo M. Villa (a cura di), Backstage. L’architettura come lavoro concreto, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 208.

 

Qualcuno forse ricorda l’incipit del celebre S,M,L,XL, “autobiografia scientifica” di Rem Koolhaas e del suo Office for Metropolitan Architecture pubblicata ormai più di venti anni fa, ma per molti aspetti ancora attuale. Prima del frontespizio del libro, passa in rassegna una serie di desolanti fotografie dello studio di Rotterdam, tra faldoni, cartacce, scarti di modelli di cartone, i resti di una colazione – che potremmo eufemisticamente definire “di lavoro” – e, soprattutto, un computer Apple Macintosh al centro di una generica scrivania da ufficio. In trasparenza, alcuni diagrammi appena leggibili riportano i numeri dello studio: “Forza lavoro” [Work force], “Redditi e Spese” [Income and Expenditure], “Volume di affari” [Turnover], “Spese di gestione” [Expediture], “Viaggi” [Travel behaviour] e così via. In questa cruda descrizione di cosa ci sia dietro – o meglio davanti – uno degli studi di architettura più noti al mondo c’è tutto l’ethos di un mestiere ormai cambiato.

“L’architettura è un miscuglio azzardato di onnipotenza e impotenza”, afferma Koolhaas all’inizio della sua introduzione. Questo innanzitutto perché sono cambiati i suoi modi di produzione. La casualità delle richieste dei clienti, l’incoerenza tra (presunti) problemi e (presunte) soluzioni a cui la macchina dello studio di progettazione deve fare fronte, la fondamentale aleatorietà che governa la sua azione, tutto ciò getta un ombra sinistra sul significato delle forme e degli spazi che, residualmente, vengono prodotti.

 

Ora, come è noto, Koolhaas è abile nel fare di necessità virtù. La coerenza imposta al lavoro dell’architetto, “cosmetica” e auto-censoria, come la definisce l’architetto olandese, è da sempre uno degli escamotage di una diffusa retorica che cerca di sublimare le difficoltà del mestiere all’insegna di un malcelato eroismo. Tuttavia, leggendo il curriculum di OMA con gli occhi delle generazioni di architetti, stagisti e freelance che, ieri come oggi, hanno reso possibile esperienze di questo tipo, non si può non percepire lo scarto epocale che ha caratterizzato gli ultimi venti anni della nostra professione.

Quello che emerge da Backstage. L’architettura come lavoro concreto, il libro curato da Florencia Andreola, Mauro Sullam e Riccardo M. Villa, introdotto da Marco Biraghi, non è soltanto il mondo che c’è dietro l’architettura più celebrata, sia essa fatta di edifici costruiti o d’immagini virtuali. Piuttosto, la ricerca promossa dal collettivo milanese Gizmo è la rappresentazione di come il lavoro dell’architetto sia oggi innanzitutto una condizione più complessa di quella che tradizionalmente associamo all’idea di “genio creatore”, con tutta la sua aura di autorialità e responsabilità; un’idea – si badi – ben più resistente di quanto non immaginiamo, che è di fatto confermata ed esaltata dalle pratiche di sfruttamento e outsourcing che governano la progettazione architettonica. Persino all’ultimo stagista, infatti, prima o poi è chiesto di “inventarsi qualcosa” come testimonia per esempio l’emblematico reportage di Emanuele Faccini (Come up with something) nel quale si dimostra come la creatività sia ormai la merce più indispensabile ma anche quella che si ricerca più a buon mercato.
Tutto ciò, ovviamente, è possibile in un contesto produttivo radicalmente cambiato, nel quale, come ricorda Riccardo Villa, i processi di divisione, alienazione, astrazione e massificazione del lavoro sono sempre più la cifra degli studi di architettura e della pratica professionale in genere. Tuttavia a tale dispersione pulviscolare del know-how non corrisponde una conseguente ridefinizione della struttura decisionale, che invece è sempre più gerarchica e piramidale. Mai come nel lavoro concreto dell’architetto, il mito di una classe creativa che possa emanciparsi orizzontalmente si è infranto in una serie di meccanismi di sfruttamento che vanno dalle norme della libera professione, sempre più penalizzanti, alle dickensiane condizioni di lavoro dei grandi studi delle archistar. E poi c’è l’annosa questione della peculiare condizione del lavoro in Italia cui sono dedicate diverse pagine del libro: 153.000 architetti – il numero procapite di gran lunga più alto del mondo stando ai dati del 2014 – risultano in massima parte (47%) titolari del loro studio, dunque un’enorme forza lavoro assoggettata alle dure leggi del sistema e disperatamente alla ricerca di una illusoria ma impossibile “normalità” professionale.
A essere sfruttato non è solo chi l’architettura la produce (gli eserciti di collaboratori sottopagati, di caddisti e di partite iva), ma anche l’architettura stessa. Tra i molti aspetti che il libro mette in risalto ci sono infatti alcune presunte “buone pratiche” che, a ben vedere, mostrano più di un lato oscuro: Marco Biraghi sottolinea quella dei concorsi di architettura, una disciplina sempre più improntata al coinvolgimento di architetti in virtù della loro “forza economico-relazionale” piuttosto che la qualità dei progetti. Il risultato è un inedito antagonismo tra figure di progettisti utilizzati come brand o “facilitatori” al servizio dei grandi capitali. Il risultato inevitabilmente ha poco a che fare ha con il prodotto e molto più con le dinamiche del lavoro proprie del sistema capitalistico, al punto che l’architettura ne risulta spesso come un accidente, quando non un puro residuo (vedi l’esempio emblematico dell’ultima stagione di grandi progetti a Roma, con le vergognose speculazioni lungo via Cristoforo Colombo, costruite e letteralmente abbandonate, e la faraonica opera incompiuta del complesso sportivo di Tor Vergata di Santiago Calatrava).

Come se ne esce? Quello di Peggy Deamer è tra i contributi che mettono a tema una possibile strategia. Secondo la docente della Yale University il difetto sarebbe proprio nel sopravvivere di una condizione di lavoro di natura ancora fordista. Rimuovendo il mito dell’architetto come produttore di oggetti e la falsa ricompensa delle gratificazioni dell’opera d’arte, tecnologie come il BIM (Building Information Modeling) potrebbero promuovere un’idea di lavoro realmente diffusa e orizzontale – quindi più correttamente remunerato – superando definitivamente il modello Beaux-Arts basato sull’eccellenza estetica del progetto.

In attesa di valutare gli effetti dell’ennesima rivoluzione tecnologica, vale la pena ricordare che l’introduzione prima del CAD e poi di Internet, pur spostando la fase creativa nelle mani degli “operai” rendendola disponibile a fasce di addetti sempre più numerosi, non ha impedito che il loro sfruttamento diventasse ancor più sistematico e diffuso.

Ma c’è di più. Al crescere dei dispositivi di divisione e meccanizzazione cambia la natura del lavoro stesso. Quanto più la produzione architettonica si articola in un'infinità di saperi interconnessi, tanto più il lavoro concreto tende a farsi astratto proprio in quanto la sua unità di misura è il suo valore di scambio non solo in termini di denaro ma proprio in quanto performance. Come sosteneva l’economista russo Isaak Il’ijč Rubin nel suo celebre Saggi sull’economia del valore in Marx (1928) in un sistema capitalistico “non è il lavoro in sé ad attribuire valore ai prodotti, ma solo il lavoro organizzato in una certa forma sociale”, appunto il lavoro astratto. È al momento dello scambio, infatti, che il carattere concreto della produzione di merci astraendosi diventa socialmente necessario. “Il valore non è una proprietà delle cose, ma dei rapporti sociali entro cui sono prodotte”. Il noto concetto marxiano di feticismo della merce, secondo Rubin, altro non è che un modo per porre l’accento sui meccanismi sociali indotti dal sistema capitalistico il cui scopo è la produzione di valore direttamente attraverso lo sfruttamento del forza-lavoro. La merce è un feticcio non in quanto “nasconde” i rapporti di produzione, ma proprio perché li incarna. “La teoria del valore-lavoro scopre il feticcio, l’espressione reificata del lavoro sociale nel valore delle cose. Il lavoro si ‘cristallizza’ o prende forma di valore nel senso che acquista la ‘forma di valore’ sociale.” (Isaak Il’ijč Rubin, Saggi sull'economia del valore in Marx, trad.it Feltrinelli, Milano 1976, p. 61)
Tale forma di valore è oggi ben rappresentata dalla capacità dei lavoratori di stare al passo con l’evoluzione tecnologica la quale, aumentando i processi di distribuzione e produttività del lavoro, non può che aumentarne l’astrazione. Il valore del lavoro diventa sociale sempre più nella sua natura performativa e creativa: lavorare significa dimostrare concretamente di saper fare, soprattutto di saper valorizzare tecnologie in costante evoluzione. Non meraviglia pertanto che l’ultima frontiera del progetto architettonico sia quella che alcuni già definiscono la “santa trinità informatica”: il CAD (Computer Aided Design) che uniforma le procedure “creative”, il citato BIM che gestisce i protocolli di realizzazione dei progetti, l’IPD (Integrated Project Delivery) che prevede la stipula di un contratto multilaterale con la ripartizione di rischi e benefici tra tutti i soggetti coinvolti, che fin dall’inizio collaborano per definire una soluzione progettuale. Dietro la promessa di una presunta “ottimizzazione” delle procedure questi sistemi non fanno altro che portare a fondo scala quel processo di articolazione e flessibilizzazione del lavoro in atto già dalla metà degli anni Settanta con la crisi del modello produttivo tayloristico-fordista e l’avvento del toyotismo. È in tale fase, infatti, che l’intelligenza del lavoratore e la sua capacità relazionale diventano il centro di una nuova idea di sfruttamento del lavoro basata sempre più sulle possibilità e sul ritmo degli avanzamenti tecnologici di massa.
Queste tecnologie non costituiscono un universo parallelo e indipendente rispetto ai luoghi e agli spazi in cui fisicamente il lavoro si svolge. Al contrario esse sono la dimostrazione più concreta di quanto il lavoro sia oggi ancor più incarnato nello spazio che nel passato: non più soltanto nell'ufficio tradizionale o nello studio, ma dentro lo spazio domestico, durante gli spostamenti e nei luoghi del tempo libero. Come sottolinea Pier Vittorio Aureli, mai come oggi interi territori sono di fatto fabbriche di produzione di beni e servizi, dove per fabbrica va inteso quel sistema macchinico che mette insieme molte cose apparentemente disomogenee come i trasporti, la logistica, i sistemi algoritmici della finanza ma anche le risorse naturali e i territori agricoli. [vedi: Pier Vittorio Aureli, Il ritorno della fabbrica]. In questo mondo sempre più “fabbrichizzato” nel quale la classe creativa è la nuova manovalanza al servizio dei network globali, l’architettura, in quanto pensiero sui modi di produzione e sulle forme dello spazio, è destinata a giocare un ruolo chiave. Tuttavia l’incessante avvicendarsi di nuovi sistemi informatici e più in generale il mantra del progresso in primis tecnologico, più che annunciare un cambio di rotta fa capire come i processi di sviluppo del sistema, e quindi di sfruttamento delle sue risorse, si stiano mettendo velocemente al passo con i tempi.
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