di Cristina Bianchetti
Victor Gruen. From Urban Shop to New City, Alex Wall, Actar, Barcelona 2005 (pp. 270, s.i.p.)
“Abbiamo appena graffiato la superficie del nostro Paese, è un Paese ancora da scoprire, una terra appena trovata”. Nello stesso anno (1951) in cui John Dos Passos lanciava un messaggio di speranza nell’incrollabile capacità di autorigenerarsi dell’America, un altro protagonista del modernismo americano, Victor Gruen, lavorava al progetto del primo shopping center dotato di impianto di area condizionata. Una non troppo diversa forma di fiducia. Legare Gruen alla progettazione degli shopping center è riduttivo, anche se inevitabile: l’architetto austriaco, vissuto tra Vienna, New York, Los Angeles, e ancora Vienna, riporta a connessione temi urbani e spazi del commercio per larga parte della sua vita professionale.
I primi trentacinque anni passati nella capitale austriaca (e tra questi, i suoi primi dieci di lavoro) gli comunicano un’idea di spazio pubblico che va oltre le banalità dello spazio frequentato da molte persone. Pubblico è lo spazio che permette di sentirsi nella città. L’aggettivo allude alla concrezione di un orizzonte di senso condiviso. L’invenzione di Gruen è stata quella di declinare su questa idea densa di spazio pubblico una tecnica di costruzione dei luoghi del commercio. Dapprima a mezzo della progettazione di negozi. Le entrate coperte di Vienna e New York sono una pausa dal traffico, un invito discreto alle pratiche dello shopping. Sequenze, incisioni, visioni urbane che rappresentano contemporaneamente una mise-en-scène della merce e una luminosa membrana che interfaccia attività privata e vita pubblica. Poi, il passo successivo: ripensare lo shopping center in chiave urbana. Intenderlo come un materiale complesso che impone la risoluzione di alcuni sofisticati problemi di separazione e distanza (tra pratiche differenti, tra modi di usare lo spazio muovendo persone, merci, automobili, tra accessi, circuiti, dispositivi). Fino a rileggere gli spazi del commercio come i principali spazi comunitari e culturali in un paesaggio suburbano in formazione.
Se già si limitasse a questo, la rivisitazione del lavoro di Victor Gruen che il libro propone sarebbe utile a ripensare il coniugarsi di pratiche dello shopping e città in modo meno ipernutrito di ottimismo e superficialità di quanto non accada per la città contemporanea. Declinandone le radici bene dentro la modernizzazione raccontata da Dos Passos. Ma ci sono altri due temi che il libro di Alex Wall discute. Il primo concerne il passaggio dalla progettazione dello shopping center ai progetti di rivitalizzazione delle downtown americane. Alla metà degli anni Cinquanta, in un momento di forte crisi della città americana, il centro urbano ha ancora per Gruen un significato economico potenziale, a patto che riesca ad accogliere gli spazi funzionali e simbolici della modernizzazione: autostrade, shopping center, parcheggi-garage. Uno dei più celebri esempi è il piano per Fort Worth, presentato in questo libro, ma anche, nel 1956, dalla rivista Urbanistica che gli dedica un ampio servizio di 15 pagine bene illustrate, con una tavola fuori testo e un’introduzione di Bruno Zevi, dal titolo Downtown come San Marco.
A rendere fin da subito chiare le cose. Quella di Gruen, rivista da Urbanistica, è la celebrazione di una “progettazione tecnica ed economica che ha le proprie basi nell’iniziativa privata”. Un programma, scrive Zevi, discutibile sotto il profilo teorico, ma apprezzabile, poiché, a differenza della tradizione di pianificazione americana, dalle città giardino alle green belts, rifugge dal paternalismo. L’eliminazione del traffico automobilistico permette (e obbliga) la massima concentrazione edilizia, la trasformazione dell’area in un “cuore commerciale”. Un centro “liberato dai cattivi odori e dai rumori, dominato dal pedone” e finanziato con l’uso commerciale delle strade e il rinnovo dell’edilizia inferiore ai tre piani. Fort Worth è, non solo da noi, l’emblema di un modo di avvicinarsi alla città mediato dall’esperienza degli shopping center (i due più noti di Gruen, al momento, sono a Northland e a Detroit).
Varrebbe rileggere le parole di Urbanistica che prefigurano il muoversi e lavorare a Fort Worth nell’allora lontano 1970, per capire quanto una tecnica possa suscitare “le forze esplosive del mito”. Il secondo passaggio, prefigurato dal libro di Wall, attiene l’invenzione di un modello astratto di città regione multipolare, elaborato tra il 1956 e la metà degli anni Settanta. In un periodo nel quale si è consumato anche in Europa, e in Italia in particolare, il dibattito sulla città regione. La Cellular Metropolis di Gruen tenta di affrontare il problema della quantità insieme alla difesa della qualità della vita. Gruen sintetizza un’immagine che è opposta alle tante trascrizioni in tono minore della Ville Radieuse di Le Corbusier, quanto all’anticittà di Wright. A dominare è l’idea di cellula e il suo organizzarsi.
Negozi, shopping center, rinnovo delle downtown, metropoli cellulare sono i quattro ambiti nei quali è trascritta, nel libro di Alex Wall, la storia di un conflitto tra l’ambizione di un architetto e la trasformazione della società americana e del suo paesaggio urbano. La separazione, fin troppo rigida, ordina una materia straordinariamente ampia. Non si può dimenticare che Gruen ha lavorato moltissimo, con molte altre persone, in diversi paesi. Il suo lavoro è stato oggetto di molte attenzioni. I suoi tre libri (Shopping Towns U.S.A., 1960, con Larry Smith; The Heart of Our Cities, 1964; Centers for the Urban Environment, 1973) sono stati influenti. Cionondimeno, l’aspetto evolutivo che questo ordinamento assume non convince quando diventa spiegazione. Il passaggio tra i quattro ambiti segna, nel libro, una progressione lineare del pensiero, non solo delle occasioni di progetto. E, come in ogni progressione, sbocca in un punto che la comprende completamente: la definizione di cosa possa dirsi città sostenibile.
Definizione alla quale non possiamo certo oggi sottrarci. Al di là della doverosa e necessaria attenzione al lavoro dell’architetto austriaco-americano, la questione è quanto la sua riflessione sia attuale. Ogni monografia postula l’attualità del suo oggetto. Quasi per dovere. Il libro di Wall non sfugge e vi pone una certa enfasi. Su questo punto, pare tuttavia opportuna qualche cautela. Nella riflessione di Gruen, l’idea dell’organizzarsi nella città dello spazio del commercio è bene intrecciata con quella di una metropoli organizzata in piccole comunità. Il punto di maggiore interesse della sua riflessione sugli shopping center diventa anche il più lontano. Può un luogo del commercio fondare una comunità nei paesaggi disgregati del suburbio? E, soprattutto, quale tipo di comunità? Non è forse neppure l’America di Dos Passos. È la comunità dell’organicismo, del piccolo paese, nella quale la parrocchia ha semplicemente lasciato posto allo shopping center.
Cristina Bianchetti Docente di Urbanistica al Politecnico di Torino
La città e il commercio
Victor Gruen. From Urban Shop to New City, Alex Wall, Actar, Barcelona 2005 (pp. 270, s.i.p.) Legare Gruen alla progettazione degli shopping center è riduttivo, anche se inevitabile: l’architetto austriaco, vissuto tra Vienna, New York, Los Angeles, e ancora Vienna, riporta a connessione temi urbani e spazi del commercio per larga parte della sua vita professionale.
View Article details
- 05 ottobre 2006