di Giuliano Tedesco
Massive Change. Bruce Mau and the Institute without Boundaries, Phaidon, London 2004, (pp. 242, € 29,95)
Cos’hanno in comune il microcredito, i nanotubi in carbonio, i programmi di attivismo ‘riformista’ volti a introdurre elementi di ecosostenibilità nelle politiche di McDonald’s? Poco, a prima vista; se non l’essere invenzioni relativamente recenti — tra gli anni Settanta e l’oggi — e il destare quella diffidenza che si riserva a soluzioni ingenue, parziali, o irrimediabilmente inconsistenti. Se queste idee mostrano pochi tratti comuni, ancora meno è quanto le collega concretamente l’un l’altra: esperti e fautori dell’innovazione in campi diversi stentano a parlarsi utilmente.
Dalle prime pagine Mau ci ricorda che il design, al suo meglio, è sempre invisibile (e tale rimane almeno finché qualcosa non va storto). La rilevanza di questa massima è chiara a chi si occupa di progettazione in senso stretto, e per le discipline che si riconoscono esplicitamente in un modello progettuale; è particolarmente interessante se applicata a sistemi più ampi, ai quali tradizionalmente non si associa il concetto di design. Massive Change adotta una prospettiva progettuale anche per fenomeni di scala immane, come il sistema militare o la povertà mondiale. È un ‘design’ che prende forma entro prospettive di interconnessione e interlocuzione, per progetti a cui ciascun designer partecipa aderendo a protocolli di azione distribuita e non a un master plan.
Parafrasando il concetto di “uomo rinascimentale”, dotato di competenze a 360°, gli autori esaltano il Renaissance team: chi ne fa parte può anche essere individualmente affetto da iperspecializzazione, purché coltivi l’affiatamento con gli specialisti delle altre aree. Massive Change è un libro sulle decisioni progettuali interdisciplinari che — locali o globali che siano nella loro portata immediata — investono comunque processi su scala planetaria.
Le numerose interviste, piuttosto concise, si avvalgono di un editing (a cura di Jennifer Leonard) efficace tanto quanto lo sono la visualizzazione e l’impaginazione (Bruce Mau Design). La scelta degli interpellati non ha il sapore dell’ovvio: i Nobel e gli esperti emeriti non mancano, ma la galleria di imprenditori post-hippy, attivisti, visionari, accademici è eterogenea, anche antropologicamente. Sarebbe difficile contestare una singola scelta o suggerire per una competenza o per l’altra persone più qualificate, che si tratti di fotografia scientifica o di architettura sostenibile, di acqua potabile o di autobus a misura di megalopoli; della decisione di consultare il divulgatore Matt Ridley sul tema del genoma, Jeffrey Sachs sulla riduzione della povertà, il romanziere e saggista Bruce Sterling per uno sguardo d’insieme al prossimo mezzo secolo.
Massive Change non è una semplice panoramica didattica di concetti alla moda, o l’equivalente adulto di un avvincente libro illustrato su “Il mondo in cui vivremo”. Molte delle innovazioni prospettate poggiano su scoperte controintuitive, che hanno dovuto (dovranno?) farsi strada contro pregiudizi radicati e modi di pensare tradizionali: l’idea dell’economista Hernando De Soto che nei contesti di miseria urbana il sistema giuridico non sia carta da parati ma abbia un ruolo cruciale, e che il riconoscimento legale dei diritti di proprietà sia più importante per i poverissimi che per le grandi imprese (le teorie di De Soto, molto lodate da Noam Chomsky, animano oggi le riforme del presidente brasiliano Lula); la nozione che il passaggio alle energie alternative sia più urgente e plausibile in Africa che nei paesi privilegiati; la visione di veicoli monoposto come il “manubrio su ruote” elettrico Segway quali nodi di un sistema intermodale di trasporto sostenibile anziché ridicoli gadget per tardo-yuppie.
Del complesso militare sono analizzati gli scambi di conoscenza tra ricerca militare e civile, oltre che le prospettive di conversione dell’economia bellica a un’economia di pace. Il capitolo sul “visualizzare ciò che è invisibile” indaga le moderne (e future) tecniche di imaging, ma anche il ruolo sociale di quelle immagini che cambiano il modo in cui vediamo noi stessi e il mondo (la doppia elica del DNA; le prime immagini del buco nell’ozono nel 1983). L’occhio attento rivolto al paradigma collaborativo e ai protocolli distribuiti mostra che questi non interessano solo il caso ovvio del software open source (e che il modello distribuito non è una novità: l’Oxford English Dictionary nacque dalla cooperazione volontaria e atomizzata di migliaia di lettori, proprio come Wikipedia oggi). La cultura professionale di ciascuna disciplina, per Mau, deve sviluppare approcci progettuali aperti a modelli collaborativi: che non sono un anti-design, ma un modo ben preciso di fare design.
La sezione forse più debole del libro è quella sulle economie di mercato: dall’area di attività umana in cui fenomeni di autopoiesi e autoregolazione si dispiegano con la maggiore evidenza si potrebbe probabilmente trarre una casistica più stimolante per superare la banale contrapposizione di chi ritiene il meccanismo di mercato perfetto e imperfettibile, da una parte, e di chi, dall’altra, vuole vincolarlo con soluzioni ingenue. Rubricare la prospettiva di Massive Change come utopismo poco mordace viene spontaneo. A poco più di un anno dalla sua pubblicazione (oggi è anche un programma di intervento sociale, una mostra e un sito web) i detrattori si sono manifestati convinti e abbondanti: l’accusa è non tanto di semplicismo, ma di quel peccato imperdonabile, un progressismo ‘ottocentesco’. Per alcuni, il libro non è altro che una celebrazione della cultura del consumo. Molti l’hanno confrontato con i precedenti S, M, L, XL (con Rem Koolhaas) e Life Style: per farne uscire Massive Change come il parto meno riuscito, va da sé.
È vero che somiglia spesso a un numero speciale della rivista Wired nei suoi anni d’oro. Il canadese Mau spaccia la stessa ideologia ‘californiana’ di idealismo, attivismo e tecnofilia: un ottimismo visionario lontano dalla semplice celebrazione dell’esistente, ma facile da confondere con quest’ultima.
Massive Change non è fatalista né cinico, e per questo è un bersaglio facile. Ignorare le questioni che pone, e astenersi da ogni contributo alla prospettiva multidisciplinare e globale che promuove, sarebbe ancor più facile, ma non è detto che sia una buona idea.
Giuliano Tedesco, Giornalista
Le decisioni progettuali interdisciplinari

View Article details
- 21 dicembre 2005