Le notizie – come le mode – vanno e vengono, seguono fasi d'interesse alterno, rispondono a logiche di mercato spesso oscure e incomprensibili al fruitore medio. Lo scandalo, lo spettacolo, la curiosità morbosa, l'adrenalina, il desiderio di essere sottratti alla noia e alla routine del quotidiano. L'Afghanistan è uno dei tasselli di questo panorama dell'abituale: con la storia di una guerra apparentemente vinta anni e anni fa, che pure continua a rimbalzare occasionalmente sui nostri teleschermi e sembra non finire mai. La conta dei morti, gli agguati sulle strade, gli attentati suicidi fanno forse alzare un sopracciglio, ma hanno perso la sensazionalità che mantiene vivo l'interesse in modo sostenuto e di lungo periodo. Nel 2011, le notizie legate all'Afghanistan hanno occupato all'incirca il due per cento dell'intera produzione di informazioni negli Stati Uniti. Sorprendentemente poco per un Paese che ha 68.000 soldati dispiegati sul territorio e ha stanziato 1.300.000 euro per il Post Operation Emergency Relief Fund, gli aiuti umanitari successivi alle operazioni militari. Con la prospettiva del ritiro delle truppe americane nel gennaio 2014 e la pianificazione di una presenza militare ridotta a circa 10,000 unità, c'è il rischio che il discorso legato all'Afghanistan scompaia progressivamente dalla sfera pubblica e resti relegato alla discussione all'interno di circoli specialistici. Una storia derubricata per l'opinione pubblica come vecchia tragedia, un episodio che dal presente viene archiviato nelle memorie della storia.
Per contrastare il rischio di una simile evenienza, Luke Mogelson (editor), Marcos Barbery (publisher) e Pieter Ten Hoopen (photo editor) hanno fondato Razistan, un collettivo di fotografi afgani e internazionali (Fardin Waezi, Javier Manzano, Joel van Houdt, John Wendle, Jonathan Saruk, Lorenzo Tugnoli, Mikhail Galustov, Sandra Calligaro, Pieter ten Hoopen) che intende mantenere vivo l'interesse per il Paese e contribuire alla restituzione della complessità di un contesto che è spesso vittima di una forte semplificazione sia visiva che concettuale.
Spedizione visiva nella terra dei segreti
Il collettivo di fotografi Razistan rivela e, allo stesso tempo, trascende il conflitto. Esplora l'Afghanistan oltre il photoreportage di guerra, con un'attenzione particolare ai veri protagonisti del conflitto: la gente e il territorio. Testo Francesca Recchia.
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- Razistan
- 05 febbraio 2013
- Kabul
Razistan in dari, la lingua parlata dalla maggior parte della popolazione afghana, significa terra dei segreti, un nome indicativo della volontà d'investigare la molteplicità degli aspetti quotidiani della vita dell'Afghanistan al di là di stereotipi e luoghi comuni. Più di trent'anni di invasioni, occupazioni, guerre civili e ribellioni hanno lasciato il Paese segnato da cicatrici profonde, un senso di instabilità spesso paralizzante, i valori della fiducia e della solidarietà minati alle radici e una dolorosa catena di irrisolti e vendette sia personali che etniche.
Le narrative testuali e visive legate ad anni di guerre tanto lunghi quanto sfaccettati hanno spesso ridotto il racconto in termini di facili dicotomie: vincitori e vinti, vittime e aggressori, mujahedin e talebani, popolazione civile e militari, creando un ritratto semplificato e banalizzante della realtà. Il collettivo di fotografi Razistan mira a smantellare questi dualismi e si propone come una piattaforma che intende allo stesso tempo rivelare e trascendere il conflitto; esplorare l'Afghanistan oltre il photoreportage di guerra, con un'attenzione particolare a quelli che del conflitto sono i veri protagonisti: la gente e il territorio. Lo scopo del collettivo è creare uno spazio in cui i fotografi possano esplorare e raccontare storie e situazioni indipendentemente dalle richieste di photoeditor e testate giornalistiche ribaltando in questo modo la logica della produzione di informazione attraverso le immagini. Razistan si presenta come una forza propositiva, che offre nuove prospettive e propone punti di vista anziché rispondere a commissioni, calcoli di audience e storie prefabbricate in news rooms a migliaia di chilometri di distanza.
Una delle grandi ricchezze di Razistan sta nella varietà di voci e sguardi che i suoi fotografi propongono: giornalisti che offrono una molteplicità di approcci e interessi tale da rendere giustizia alla complessità dell'Afghanistan contemporaneo.
Una delle grandi ricchezze di Razistan sta nella varietà di voci e sguardi che i suoi fotografi propongono: giornalisti che offrono una molteplicità di approcci e interessi tale da rendere giustizia alla complessità dell'Afghanistan contemporaneo. I temi esposti dal collettivo fondato a Kabul nel 2012 dimostrano un profondo radicamento e una comprensione intima del territorio. Gli scatti di Sandra Calligaro svelano la crescita della classe media e l'impatto che questa ha sulla fase presente di espansione urbana; quelli di John Wendle indagano le controversie legate al programma di addestramento della polizia locale afghana da parte del contingente americano e inglese. Jonathan Saruk racconta la passione per il cinema che è sopravvissuta nonostante il bando dei talebani e il pericolo delle bombe; Lorenzo Tugnoli, con le sue foto in bianco e nero scattate in pellicola, mostra un aspetto dell'Afghanistan spesso dimenticato: la normalità della vita quotidiana in un villaggio di montagna in cui la percezione della transizione geopolitica è plasmata dai cicli della natura e dal bisogno di sopravvivenza. Dal racconto dell'ordinaria amministrazione di un pronto soccorso in un Paese in guerra alle difficili negoziazioni con successive ondate d'insorgenti e signori della guerra, il lavoro di Razistan è una preziosa chiave d'accesso agli aspetti inesplorati della terra dei segreti. Francesca Recchia (@kiccovich)