Mark Wigley

Il futuro dell’editoria di architettura e il paradosso del “lettore imprevisto”

Intervista a Mark Wigley, professore alla Columbia University di New York, sulle prospettive dell’editoria di architettura: “L’obiettivo è quello di ridurre il numero dei lettori nella speranza di inventare un altro tipo di lettore”.

È di poco prima dell’estate l’annuncio che San Rocco Architecture Magazine ha deciso di concludere in anticipo l’esperimento editoriale, per altro fin dagli inizi annunciato come progetto a tempo. Scarsa eco al di fuori della nicchia, secondo i fondatori – una nicchia di tutto rispetto, grazie a una formula visiva diventata presto iconica (se non manieristica) che ha polarizzato tutta l’attenzione.

Nulla di inatteso, né di sorprendente: a suo tempo Roberto Zancan aveva analizzato criticamente la comparsa di questo e di simili progetti editoriali nati inizialmente in contesti accademici e scientifici, poi spostati verso contesti più collettivi, più semplificati, diversamente elitari. Proviamo a riprendere alcuni dei temi sollevati da quell’articolo, aprendo ulteriori elementi di riflessione nel confronto su natura e prospettive dell’editoria di architettura con un interlocutore speciale: Mark Wigley, professore alla Columbia University di New York, storico e teorico particolarmente interessato alle intersezioni tra architettura, filosofia, cultura e tecnologia.

Lo scorso maggio, all’apertura di un incontro sul tema “Publishing in architecture” a Berlino, hai riportato l’attenzione sul paradosso che non esiste architettura senza parole che la descrivano: ancora oggi è la carta, a dispetto della fragilità del supporto, a garantire il sogno di permanenza nel tempo dell’architettura. Come a dire: libri e riviste sono stati dati per spacciati e ci si accorge invece della loro utilità?
La convivenza della carta stampata con il digitale e i nuovi media incrementa la responsabilità o addirittura la seduzione dei libri e della carta stampata in generale. È un fenomeno che riscontriamo per esempio negli archivi storici: la digitalizzazione dei documenti ha reso accessibili moltissime informazioni, ma ha incrementato il numero delle richieste di consultazione dei documenti originali. Per quel che riguarda specificamente l’editoria, gli architetti non hanno mai smesso di amare i libri. Per di più oggi conoscenze e tecniche alla portata di tutti fanno sì che sia aumentata in modo esponenziale la produzione di libri – libri bellissimi, ottimamente confezionati: gli studenti, oggi, fanno un libro per ogni progetto. Tuttavia, il più delle volte risulta evidente che non sono libri concepiti per essere letti. Ho la sensazione che questa iperproduzione editoriale e l’insistenza, la cura quasi maniacale degli aspetti formali della pubblicazione, in qualche modo servano a compensare il crescente senso di insicurezza degli architetti. In un passato che sembra ormai remoto, se eri in grado di produrre buoni libri e buoni edifici, governavi l’universo: pensiamo a Loos, a Le Corbusier, allo stesso Koolhaas… Oggi, invece, assistiamo a tentativi disperati di produrre monumenti di carta senza che ci sia la consapevolezza di cosa significhi fare architettura nel XXI secolo. Lo considero un atteggiamento più che altro difensivo.

Sei un osservatore particolarmente attento al rapporto tra media e architettura, ritieni che oggi ci sia chiarezza sul tema?
Tra gli anni Sessanta e Settanta si è molto analizzato e discusso su quanto i media stessero trasformando la percezione dell’architettura – certamente la televisione, per esempio, ha rivoluzionato l’architettura, trasformando l’esperienza dello spazio, e a questo hanno risposto in modo molto ponderato e polemico alcuni Radical italiani come Ugo La Pietra come pure Buckminster Fuller, Cedric Price, Hans Hollein e Konrad Wachsmann. Ma alla fine erano ben piccoli discorsi in relazione all’enormità della trasformazione. Ora la TV è tramontata, sono comparsi i social media che hanno completamente scardinato il sistema. L’analisi del fenomeno però non è andata di pari passo. Nei fatti, direi che abbiamo sviluppato una nuova perdita di sofisticazione nella lettura dei media. C’è una sorta di cecità anche nelle nostre scuole. Per inerzia continuiamo a considerare gli edifici oggetti fisici più i media – dimenticando ciò che abbiamo imparato da Vitruvio, che l’architettura stessa è un sistema comunicativo, e che quindi dobbiamo considerarla in relazione con gli altri media. Pubblicare significa semplicemente rendere pubblica una idea. O parlare a un pubblico. Oggi con i social media tutto è pubblico. Non solo questo: tutto verte sulla sincronizzazione – quella materiale operata dai nostri dispositivi, ma ancor di più quella culturale. Chi desidera essere fuori sincronia? Tutto converge verso la stessa storia. Così alla fine l’architettura non ha niente da dire perché tutto è già stato detto.

Ho la sensazione che questa iperproduzione editoriale e l’insistenza, la cura quasi maniacale degli aspetti formali della pubblicazione, in qualche modo servano a compensare il crescente senso di insicurezza degli architetti

In questo quadro, che ruolo per i libri?
Penso che il ruolo dei libri possa essere inverso: invece di rendere costantemente pubbliche le idee, possiamo considerare di ricreare ambiti più privati, sottraendole a questo flusso continuo. Le testate periodiche sono in contrazione, gli editori pure; tutti gli sforzi sono indirizzati a massimizzare il numero di lettori che in realtà non leggono. C’è una drastica perdita di attenzione. Gli innumerevoli canali che trasmettono verso di noi sono solo monitorati per modifiche minori anziché letti: si getta uno sguardo. Così l’architettura, per esempio, è diventata qualcosa che viene sempre e solo guardata… Perché allora non ribellarsi a questa economia anestetica, cercare di ridurre il numero dei lettori e paradossalmente aumentare il tasso di lettura? Sembra una provocazione, ma è solo un interesse a risvegliare discorsi più precisi, non necessariamente radicali.

Dunque, una soluzione a bassa tiratura, vicina all’autoproduzione? Un pubblico ridotto comporta un budget ridotto, non dimentichiamo che l’editoria è parte di un sistema economico…
Si, penso a una economia di scala più ridotta. In quest’ottica, potremmo forse pensare a una qualche rivalsa del libro – penso però a un libro diverso, non costruito per un vasto pubblico o un successo immediato. Le idee forti per definizione hanno vita difficile; a volte hanno successo quando meno te lo aspetti. Anche gli editori dovrebbero recuperare un ruolo propositivo, creando le condizioni per accogliere idee inaspettate in uno scambio proficuo tra diverse componenti del catalogo. L’obiettivo è quello di ridurre il numero dei lettori nella speranza di inventare un altro tipo di lettore imprevisto. Sono certo che c’è un potenziale per un altro genere di discorso. Forse sono ancora affezionato all’idea di una avanguardia; ma per reagire a questa piattezza, abbiamo bisogno di discussioni nuove e audaci.

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