Owen Hopkins

La crisi del “bene pubblico” in architettura

La crisi nella definizione di “bene pubblico” nell’architettura di oggi e il significato del lavoro di architetti e urbanisti nel settore pubblico.

Nei decenni a venire forse guarderemo alla convulsioni politiche di oggi come al sintomo di un cambiamento importante del quadro politico ed economico, della sostituzione di un sistema a un altro. L’ultima volta è accaduto negli anni Settanta, quando le politiche socialdemocratiche del dopoguerra furono rimpiazzate dalle dottrine di libero mercato di quel che spesso viene definito “neoliberismo”: il sistema che oggi pare non si possa eradicare.

Il cambiamento dell’atmosfera politica ed economica degli anni Settanta presumibilmente fu avvertito più fortemente che altrove in Gran Bretagna, dove l’architettura e l’urbanistica divennero il parafulmine del dibattito che ne seguì. Per molti nulla era più emblematico del nuovo ordine – letteralmente venuto alla luce dalle rovine della seconda guerra mondiale – dei prodotti delle numerose ripartizioni d’architettura delle pubbliche amministrazioni locali. Quando il vento cambiò a sfavore delle strategie di quell’epoca, l’architettura e l’urbanistica divennero un bersaglio scontato.

Una trasformazione così generale che, dal picco del 49 per cento degli architetti che nel 1979 lavoravano per il settore pubblico, il tasso oggi è fermo al solo 0,7 per cento. Tuttavia, a riflettere il cambiamento del clima politico britannico, ci sono oggi fenomeni che si apprestano a rovesciare la situazione. Uno dei più importanti è la Public Practice: un’“iniziativa sociale” (senza fini di lucro) nata nel 2017 e sostenuta dal Comune di Londra che “mira ad aumentare le competenze dell’amministrazione locale sull’ambiente costruito” e, così facendo, a “trasformare la funzione del servizio pubblico, aiutando chi lavora in esso a prendere la guida”. Il progetto funziona essenzialmente come un piano di collocamento, con architetti e designer che lavorano per un anno in un’amministrazione locale con le funzioni di consulenti e di promotori di una miglior progettazione urbana.

Fin dall’istituzione la Public Practice ha attirato ampia attenzione da parte dei media (forse più di quanta ne meriterebbe la sua capacità d’intervento) oltre che l’interesse ad ampliarne la rete da parte di Stoccolma, New York e Sidney. Ovviamente l’affermazione che “non esiste ruolo più importante nel dar forma al mondo che ci circonda in funzione del bene pubblico” di quello del “pianificatore pubblico” coglie lo spirito del momento attuale e, per lo meno in Gran Bretagna, riflette l’opinione sempre più di moda che considera gli anni del dopoguerra come una specie di età dell’oro.

In realtà il “bene pubblico” in architettura non è determinato dal fatto che un architetto lavori o meno nel settore pubblico o in quello privato. Quello che conta sono i valori che ispirano il progetto e il modo in cui l’architetto li interpreta

Ovviamente la realtà di quell’epoca era molto diversa. Mentre la politica di nazionalizzazione delle attività industriali di base e di intervento statale garantì per un certo periodo crescita economica e miglioramento della qualità della vita, la natura dirigistica e tecnocratica della loro gestione in ultima analisi pose le basi della sua distruzione. Cosa che si avvertì soprattutto in architettura e in urbanistica.

Per molti architetti e urbanisti del settore pubblico il fatto stesso di lavorare per il pubblico portava alla convinzione che il loro lavoro fosse intrinsecamente diretto al “bene pubblico”. Tuttavia un rapido sguardo all’eredità di quell’epoca, specialmente in urbanistica (si pensi alle numerose città europee e statunitensi che recano nel loro nucleo urbano le cicatrici delle autostrade a più corsie), induce a una conclusione abbastanza diversa. Il “servizio pubblico”, per usare la terminologia della Public Practice, all’epoca non coincise sempre con il “bene pubblico”, e non c’è ragione di credere che oggi andrebbe diversamente.

Ciò che questa tendenza in realtà rivela è una crisi nella definizione stessa di “bene pubblico” nell’architettura di oggi. Quando quasi tutti gli architetti lavorano alle dipendenze di committenti privati è comprensibile rimanere fedeli all’idea che, se si è assunti dal “pubblico”, per definizione quel che si fa lo si fa per il “bene pubblico”. Ma ciò significa cadere nella stessa trappola dei neoliberisti: considerare il rapporto tra il settore pubblico e quello privato in termini di bianco  e nero, solo in forma rovesciata.

In realtà il “bene pubblico” in architettura non è determinato dal fatto che un architetto lavori o meno nel settore pubblico o in quello privato. Quello che conta sono i valori che ispirano il progetto e il modo in cui l’architetto li interpreta. Il problema delle esperienze analoghe alla Public Practice è la convinzione talvolta paternalista che solo il settore pubblico possa pensare in termini di “bene pubblico”, e che l’idea di realizzare luoghi di grande qualità per la vita e per il lavoro non passi mai per la testa di un immobiliarista.

E contemporaneamente mette in luce ancora una volta i limiti del settore pubblico, che mira – per usare le sue stesse, un po’ tronfie, parole – ad affrontare “le immani sfide cui la società si trova di fronte” ma rimane sempre concentrato in un unico comune, dagli orizzonti sempre troppo campanilistici. Indubbiamente l’intera impresa si trova a essere il prodotto di una situazione di gran lunga troppo britannica – se non londinese – e dovrebbe integrare lezioni apprese altrove, dalle Strategie collettive per i distretti dell’energia della IABR, la Biennale internazionale d’architettura di Rotterdam, a Los Angeles con la sua nuova “Ripartizione responsabile della progettazione”. Benché ci sia certamente posto per un architetto nel settore pubblico, chi lo considera una panacea dovrebbe stare attento a quel che auspica.

Immagine di anteprima: Simon-Whybray, Hi boo i love you, 2016, Bold Tendencies Commission, Londra. Foto Mireia Bosch Roca

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