Da quasi mezzo secolo, all’incirca una volta ogni due o tre anni, la città di Genova viene colpita da un’alluvione, e stravolta. Le fotografie delle sue strade invase d’acqua, o dei cumuli di automobili trascinati sui crocicchi, ci raggiungono in ogni angolo d’Europa.
Si potrebbe credere che siamo abituati, alle immagini di città allagate. Perché mai dovremmo ancora sorprenderci, dopo aver osservato il passaggio dell’uragano Sandy a Manhattan? Eppure quel che succede a Genova ha qualcosa di straordinario. Non perché in questo luogo un’inondazione debba essere più drammatica che altrove, ma perché il primo porto d’Italia, filtrato attraverso la raffigurazione dei disastri ambientali, ci trasmette una visione unica sull’identità dello spazio urbano.

Proviamo a passare in rassegna la documentazione delle ultime catastrofi, quelle di ottobre 2014 e novembre 2011. Troveremo, in sequenze visive come questa, ben poche tracce di quella trasfigurazione orizzontale che ovunque al mondo segue a un allagamento. Il tessuto di Genova non viene trasformato in una distesa liquida, punteggiata da isolotti antropici. A essere scombinate sono infatti le gerarchie verticali.
Ma restiamo su quelle fotografie. Ci imbatteremo in automobili inerpicate sulle scalinate. Vicoli rimasti senza cielo. Voragini in cui affogano interi veicoli, giusto accanto a un marciapiede asciutto. Pendii congestionati di edifici. Fiumi tombati che sfondano l’asfalto. Cascate. Case di campagna appoggiate a viadotti alti come grattacieli. Per l’occhio straniero non esiste insomma alcuna soluzione di continuità tra gli elementi sconvolti dal diluvio e la quotidiana ossatura urbana locale. Se l’incoerenza dell’ambiente preesiste all’alluvione, quel che l’alluvione finisce per fare – per paradosso – è esaltarne il carattere. La quinta di cemento che abbraccia il disastro arriva a restituire a Genova una dimensione specifica, insieme solenne e perversa. Ogni straripamento dei torrenti genovesi reclama l’esistenza, altrimenti non esposta, di intere sezioni della città.
Il tessuto di Genova non viene trasformato in una distesa liquida, punteggiata da isolotti antropici. A essere scombinate sono infatti le gerarchie verticali
Qualche mese fa è uscito uno strano libro di fotografie. Si intitola “In un’altra parte della città”, ed è curato da Paolo Caredda per l’editrice milanese ISBN. Non si tratta di un’inchiesta sulla speculazione edilizia, nè di un saggio dedicato alle nostre storture urbane. È soltanto una raccolta di vecchie cartoline. Cartoline, ad essere sinceri, piuttosto scadenti. Sia tecnicamente, sia esteticamente. Le cartoline di “In un’altra parte della città” non riproducono località d’arte, o le capitali marittime del neonato turismo di massa. Sono invece dedicate ai quartieri figli del miracolo economico. Si tratta di cartoline nate per celebrare i sobborghi: in alcuni casi, gli stessi che negli ultimi autunni liguri si trovano ad affogare.

Dopo qualche ritocco cromatico manuale (per ravvivare intonaci spenti, cieli grigi, o passanti malvestiti) si andava in stampa, con tirature tra le 5 e 10 mila copie. Uno sproposito, per la marginale bellezza di un cavalcavia a Taranto, o di condomini a Bresso, Mirafiori, Fontanafredda e Zingonia? Forse. Ma sappiamo per certo che per anni quegli articoli continuarono a restare sul mercato, a dimostrazione di uno sforzo imprenditoriale non senza fondamento. Abbiamo anche esempi di cartoline effettivamente acquistate e spedite ad amici o parenti. Qualcuno impugnava un pennarello e segnava con una freccia la finestra di casa propria. Altri, imbucando nella buca delle lettere sagome di cupi macchinari dalle industrie del porto, nello spazio sul retro lasciavano scritto: “Pensandoti caramente”.
“Una società [immobiliare] romana aveva cercato di incastonare nel fianco della collina cinque palazzi invece di quattro, tanto che uno crollò subito, il monte si spaccò in due“

Daniele Belleri, giornalista, vive e lavora a Mosca. Ha scritto tra gli altri su Afisha, Corriere della Sera, IL Magazine, Reuters, Volume, Wired Italia. Laureato allo Strelka Institute, ha insegnato in NABA a Milano e alla Facoltà di Giornalismo della Lomonosov Moscow State University. È cofondatore di Granger Press. Su Twitter è @dajamog