Decostruzione di un mito moderno

Alcune riflessioni sull’apporto teorico e progettuale del maestro francese, in occasione della recente mostra al Palais d’Iéna dedicata all’opera di Auguste Perret.

C’è una lunga direttrice che collega il punto estremo del XVI arrondissement di Parigi – la soglia su cui la città ripartita in zone cede il passo alla periferia – con la grande esplanade del Trocadero, fulcro visuale e simbolo della Ville Lumière.
Non è l’unico asse che compie questa traiettoria di risalita, che si snoda tra gli edifici alto borghesi di un quartiere tanto lussuoso quanto discreto, ma questa strada che defluisce elegantemente sul fianco del Palais de Chaillot, annovera sul proprio percorso i due immeubles più noti progettati da Auguste Perret. Già là dove prende il nome di rue de la Fontaine uno dei suoi argini è segnato da quell’eccentrico capoloavoro di Hector Guimard conosciuto come Castel Béranger, che preannuncia l’immeuble in rue Raynouard, con il suo fianco di calcestruzzo non intonacato, leggermente disomogeneo e monotono, rivolto verso l’emblema della città, la Tour Eiffel, che punta con il suo occhio cieco tutta Parigi e ne trattiene il senso ultimo. Mentre, a poca distanza, si trova l’immeuble di rue Franklin, che dispiega il suo fronte prezioso a ricordarci come le grandi luci, disposte in facciata in modo da illuminare ogni singola stanza, siano anche elementi simbolici, frutto di quella cultura compositiva che Perret trasse da Blondel e Guadet.

Il lavoro di quattro generazioni di progettisti – da Blondel a Le Corbusier – scorre lungo le scanalature delle colonne che con estrema grazia delimitano il perimetro a base circolare del Palais d’Iéna, prosecuzione del percorso perrettiano sull’altro fianco del Trocadero, in direzione del Palais de Tokyo. L’edificio, costruto dall'impresa Perret nel 1939, oggi sede del CESE (Conseil économique, social et environnemental), è stato scelto da Miuccia Prada, durante le ultime sfilate parigine, per presentare la sua nuova collezione con un allestimento del gruppo OMA/AMO e, grazie alla collaborazione tra la stilista, Rem Koolhaas e Joseph Abram, uno tra i maggiori studiosi ed esperti mondiali del lavoro di Perret, è nata la mostra “Auguste Perret, Huit Chefs d’oeuvre !/? – Architectures du béton armé” (“Auguste Perret, otto capolavori!/? – Architetture di cemento armato”) che coniuga vocazione didattica e ricerca teorica all'interno di un dispositivo contenente opere e reperti, maquette e utensili, in una scenografia che è rimasta, in parte, quella della sfilata di moda.

Questa mostra, con il suo punto interrogativo esplicito sia dal titolo, chiama a riflettere sul ruolo di una figura chiave del XX secolo, che non ha ancora trovato una propria collocazione esatta e forse, per fortuna, mai la troverà. Perret, se visto in una prospettiva più ampia rispetto alle querelle del modernismo e alle critiche del classicismo, appare come un nodo di Gordio dell'architettura novecentesca, come ben dimostrano gli aforismi contenuti nel suo testo Contribution à une théorie de l’Architecture, pubblicato nel 1952, due anni prima della morte, che sigillò per sempre la parabola di un personaggio destinato per nascita al mestiere d'architetto, lui che architetto non era, e battezzato dal padre, nel febbraio del 1874, in un cantiere di Laeken, “appareilleur en chef”. Fu lui stesso a definirsi, attraverso una delle sue note frasi, concise e paradigmatiche, come un uomo legato all’azione: “Je fais du béton armé”. Eppure, il modo di mettere in opera il calcestruzzo gli valse un'attenzione che ad oggi perdura e che dimostra l'attualità di un tema. Se esiste un classicismo moderno allora, forse, è possibile cercare di comprendere le regole che sottendono quest’ossimoro, tasselli indispensabili per ritrovarsi in un periodo in cui le regole sembrano perdute per sempre.

Perret incarna l'autorevolezza della pratica costruttiva e la delicatezza della visione storicista, la regola e il modello

La critica degli ultimi decenni ha fatto spesso riferimento a una “dottrina di Perret” quasi volendo implicitamente contrapporre le sue scelte stilistiche e teoriche ai principi del Movimento moderno che, sul piano ideologico, assiomatico e dottrinale, non poteva proprio invidiare nulla al maestro francese. Perché, allora, mettere in atto una così netta separazione, Behrens su di un fronte della barricata e Perret dall'altro, come scrisse, ad esempio, in un noto articolo Reyner Banham (Architectural Review, 1959)? Il critico inglese sosteneva che Perret avesse avuto il merito – o il demerito – di riuscire a riconciliare quello che i teorici ortodossi credevano fosse irrimediabilmente e definitivamente scisso: il razionalismo dell’École Polytechnique e il formalismo dell’École des Beaux-arts. Il risultato fu la comparsa e la conseguente idolatria di un’architettura in cui nulla era nuovo tranne il materiale.

Eppure le opere di Perret aprono, almeno, due riflessioni: da una parte mettono in luce l'inesattezza del paradigma funzionalista che vedeva legati i materiali ritenuti "moderni" come ferro, vetro e cemento, alle soluzioni formali presentate dai CIAM e, dall'altro, interrogano sulla necessità di regole che permettano alla disciplina di non perdere il proprio statuto e, anche se le dense vicende del Novecento dimostrano che un solo Perret non è stato sufficiente a contrastare derive formaliste, riduzioni di senso e aporie, la sua opera è ancora lì ad indicarci un possibile limite invalicabile, un thémenos, un confine sacro, che solo un uomo abituato alle dure regole di cantiere, poteva stabilire. Perret incarna l'autorevolezza della pratica costruttiva e la delicatezza della visione storicista, la regola e il modello. Come scrisse Réjean Legault “La parola ‘dottrina’, abitualmente utilizzata all’interno della cultura architettonica francese, implica un corpus di principi considerati veri che possano essere impiegati per giudicare, creare ed insegnare l’architettura”. Perret è, allora, un maestro nel senso più esaustivo del termine: magister, magnus, colui che indica una via, un percorso che si può seguire o contro cui ci si può opporre ma che non si può evitare.

Il mito di Perret si consolida immediatamente dopo la sua morte, già sul finire degli anni Cinquanta, quando le riflessioni legate all’utilizzo del calcestruzzo armato erano di grande attualità. Non soltanto si stava entrando a pieno ritmo nell’epoca della ricostruzione che seguì il secondo conflitto mondiale ma si affacciava all’orizzonte la domanda sull’utilizzo virtuoso del materiale cementizio. La risposta che Perret aveva offerto riguarda sia l'aspetto puramente tecnico sia il senso interno alla disciplina, come se un’idea a-temporale di classico – inteso appunto come stile capace d’innovare nella continuità del processo costruttivo – si fosse assimilata alla sua architettura. La tecnica, sembrano volerci dire molte sue opere – come il Teatro all'Exposition Internationale des Arts Décoratifs, l'Eglise de Notre-Dame a Le Raincy, la ricostruzione di Havre o il Mobilier National – è trasmissibile. Alcuni sapranno applicarla in modo più idoneo di altri ma, seguendo i medesimi precetti, difficilmente si potrà cadere nel semplice formalismo.

Perret incarna un apparente paradosso che potrebbe essere espresso come la compresenza, nei suoi progetti, di un'indubbia capacità tecnica (necessaria ad un costruttore edile), legata all’utilizzo del materiale "moderno" per eccellenza, il calcestruzzo armato, e di un'aderenza, a volte più originale, altre vagamente pedissequa, alle regole della composizione architettonica classica. Uno dei suoi più fedeli esegeti, Peter Collins, ebbe modo di scrivere a proposito del Musée des Travaux Publics che, a suo avviso, incarnava il climax della produzione perrettiana “everything was done to take full advantage of the aesthetic possibilities of structural forms”. E questo significava principalmente nobilitare il calcestruzzo facendolo diventare protagonista non soltanto all’esterno dell’edificio ma anche in quelle parti, come l’auditorium, che avrebbero, secondo tradizione, richiesto l’utilizzo di altri materiali come marmo, legno e stucco. Tutto questo rispettando e assolvendo le richieste del programma.

Perret, in modo più consapevole di molti architetti della sua generazione, si era confrontato con l’utilizzo di una tecnica costruttiva intorno a cui sorgevano interrogativi non tanto legati al calcestruzzo armato quanto, piuttosto, alle infinite possibilità formali che grazie a questo si stavano sviluppando. Giedion già dieci anni prima aveva stigmatizzato questo processo nel suo testo Mechanization Takes Command in cui il senso della tecnica moderna veniva così tradotto "La meccanizzazione è una fonte di energia come l’acqua, il fuoco e la luce.

È una forza cieca, priva in se stessa di orientamento e senza segno positivo o negativo. Come le forze della natura tutto dipende da come l’uomo la utilizza e da come se ne difende”. Auguste Perret, almeno così ci pare vogliano dirci i curatori della mostra parigina, ha avuto una grande coscienza di questo utilizzo, del modo con cui le tecniche sembrano progressivamente impossessarsi dell'uomo e ha tentato, attraverso una misurata passione verso le proporzioni classiche, di trovare l'impossibile equilibrio che ogni arte ricerca e, al contempo, rifugge. E a tutti colori i quali trovassero questa idea di neppure avvicinabile all'apollineo nietzchiano consigliamo un petit tour tra gli edifici del maestro di Le Corbusier, alla riscoperta di un classico mito moderno. Elisa Poli co-founder clustertheory.eu

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