C'è un punto della Biennale di Architettura di Venezia di quest'anno su cui quasi tutti concordano: il tema e il titolo (la cui origine il direttore David Chipperfield attribuisce alla provata acutezza di Richard Sennett) sono brillanti. Non c'è da dubitare che nella sfera del Common Ground, del "territorio comune", stia la chiave per sbloccare questioni e dibattiti critici importanti del nostro tempo. Il tema comprende ogni cosa: dall'attuale crisi d'identità dell'architettura alla lotta per sostenere, e poi occupare, Wall Street; dal sorgere della cultura della rete alla privatizzazione selvaggia a opera delle politiche neoliberiste sostenute dagli immobiliaristi. Mette insieme, d'un sol colpo, la sfera della teoria e quella della storia, e rende omaggio all'urgente necessità, come scrive nel catalogo il presidente della Fondazione La Biennale Paolo Baratta, di "rimediare allo scollamento tra architettura e società civile".
Ecco uno dei rischi in cui ci s'imbatte, organizzando una mostra sul "territorio comune": ognuno ha la sua idea di che cosa voglia dire e, siccome è una questione in cui tutti hanno un interesse, la delusione è pressoché garantita. Paradossalmente, se si vuole realizzare una mostra che faccia contenti tutti, il "territorio comune" è l'ultima scelta da fare. Ma Chipperfield doveva saperlo e gli va dato atto di non essersi tirato indietro. E gli va anche riconosciuto di aver mantenuto quel che aveva promesso fin dall'inizio: una mostra di architettura (leggi 'edifici')—strategia che, tra l'altro, ha permesso a lui e alla sua squadra di evitare nettamente la trappola di un'esposizione di architetti e la spinosa questione di come affrontare il rampante culto della professionalità presente nella prassi contemporanea. Dato il tema, speravo in una mostra un po' più avanzata, che si avventurasse maggiormente in quel campo di battaglia che è lo spazio pubblico della città di oggi; o che riconoscesse il crescente significato della produzione collettiva, l'affermarsi di una nuova koiné digitale e la crescente presenza delle generazioni più giovani, che sono indiscutibilmente più attive nell'usare l'architettura come strumento d'impegno sociale. Non sono argomenti che s'inseriscano sempre facilmente nella sfera dell'architettura, ma sarebbe erroneo affermare che non abbiano nulla da spartire con essa. Per di più, alcune delle opere più 'architettoniche' in mostra non sono in stretto rapporto con il tema. Inoltre, "Common Ground" è un titolo che suggerisce inclusione e antielitarismo ma, pensando che la Biennale di Venezia viene visitata da circa 200.000 persone (molte delle quali non sono architetti), non si presenta come una mostra particolarmente inclusiva: molte delle opere che meglio possono attirare il vasto pubblico, come la riproduzione a grandezza naturale di un'abitazione di Anupama Kundoo, eretta all'Arsenale da un gruppo di artigiani indiani appositamente giunti in volo, sono anche le meno convincenti.
Qui sta il punto a proposito di "territorio comune": in quanto spazio condiviso e punto d'incontro, è forse scorretto pretendere che sia il luogo di una specifica posizione (estetica, sociale, politica). Forse il suo valore sta nell'essere un momento di convergenza disciplinare che offre qualcosa a tutti. Le opere migliori della mostra sono eccellenti, e sono anche le più provocatorie: il Museum of Copying, il "museo delle copie", di FAT è un brillante atto d'accusa contro il falso mito dell'originalità nell'atto creativo dell'architettura, e occorre trascorrere un po' di tempo nell'installazione—che comprende anche contributi e ricerche di Ines Weizman, della rivista San Rocco e di un "nucleo di ricerca" dell'Architectural Association di Londra—per non perdere la molteplicità delle stratificazioni di riferimenti storici, messi in opera per sostenere la tesi del gruppo.
La celebrazione, a opera di OMA, dell'epoca—poco ricordata ma relativamente recente—in cui il sogno dei giovani architetti era diventare funzionari dello Stato (idea che appare assolutamente stupefacente ai nostri contemporanei), documenta in modo convincente la spettacolare rapidità con cui si evolve la struttura produttiva dell'architettura. L'aspetto interessante di questa ricerca, condotta dal direttore di AMO Reinier de Graaf, non sta tanto nel fatto che metta in luce il modo in cui l'apparato creativo che produce le città e gli edifici si trasforma, quanto la prontezza con cui diamo per scontato che abbia sempre funzionato come fa oggi. Pure interessante è stato osservare un progetto collettivo, la Ruta del Peregrino, cui hanno partecipato nove studi differenti di vari continenti, tra cui Ai Weiwei, Tatiana Bilbao, Christ & Gantenbein e Derek Dellekamp, che si sono presentati come gruppo alla mostra. L'installazione è particolarmente ben progettata, e rappresenta un modo intelligente di dimostrare che le reti internazionali di collaborazione sono un meccanismo produttivo che svolge un ruolo sempre più significativo nella realizzazione dell'architettura di oggi.
Quest'anno sono entrati nel gioco parecchi padiglioni internazionali, tra cui quelli del Kosovo, della Turchia, del Perù, dell'Angola e del Kuwait, e la forza concettuale del tema pare aver trasmesso più energia del consueto ai curatori dei padiglioni nazionali: un bel passo avanti (se si pensa che i curatori non sempre sono granché disposti ad adottare il tema della Biennale) che ha creato un dialogo e un'eco insolitamente significativi tra le sedi espositive in tutta la città. Anche nel progetto dell'allestimento si notano alcuni tocchi piacevoli, come l'immagine grafica gradevolmente sommessa (di John Morgan studio), ispirata alla tecnica con cui a Venezia i nomi delle vie sono stampigliati sui muri. Il risultato è la sensazione che gli spazi espositivi costituiscano uno spazio pubblico che s'intreccia con il resto della città.
Scegliendo un tema di tanta importanza critica in questo particolare momento, Chipperfield ha mirato tanto più in alto. Certamente avrebbe potuto scegliere un argomento più facile, che avrebbe per lo meno accontentato una delle diverse parti. Ma l'impressione che rimane nel visitatore è che la mostra non sia fatta per piacere a qualcuno in particolare, il che potrebbe essere considerato un punto di debolezza ma è anche il suo maggior punto di forza. Il "territorio comune", come le sabbie mobili, è un terreno insidioso. Avvicinarglisi è pericoloso, un gesto non da pavidi. Questa mostra si libra con eleganza sul tema e basta questo per riconoscere a Chipperfield un grande merito. Joseph Grima (@joseph_grima)
