In fondo al percorso di “Dibuixar és pensar”, l’ampia retrospettiva che il Cccb di Barcellona dedica a Chris Ware, c’è una sala interamente tappezzata dalle copertine che l’artista ha disegnato per il New Yorker nel corso degli anni. “È l’unica rivista che ancora oggi non mette testi in copertina, solo un’immagine”, osserva.
Chris Ware è da tempo riconosciuto come una delle figure più influenti del fumetto contemporaneo. Il suo stile meticoloso, carico di emozione e a tratti ironico, si combina con tavole densissime di dettagli che raccontano, attraverso un’estetica inconfondibile, temi come l’empatia, il razzismo, il consumismo e le contraddizioni della società americana.
Incontrarlo di persona significa trovarsi davanti a una delle menti più lucide nella storia del fumetto. E se le sue opere possono trasmettere un senso di malinconica compostezza — quasi come se fossero sigillate — lui, invece, è sorprendentemente accogliente, con un umorismo secco continuamente interrotto da riflessioni taglienti.
L’influenza di Ware è tale che non di rado lo si paragona a giganti della letteratura come Tolstoj o Joyce. Quando il paragone viene fatto davanti a lui, Ware si ritrae per un attimo dietro le lenti sottili degli occhiali, lasciando calare il silenzio, e poi lo spezza con una perfetta punchline.
Tutto questo ti entra in casa, anche se sei solo un cretino che passa le giornate a disegnare fumetti. Fuori dalla porta succedono cose terribili.
Chris Ware
Empatia, fiducia e il logorarsi dell’America
Tra le tante copertine in mostra, ce n’è una a cui Ware è particolarmente legato: quella del 16 marzo 2016. In quei giorni, le proteste del movimento Black Lives Matter paralizzavano Chicago — la sua città — durante una visita di Donald Trump, allora eletto da qualche mese Presidente degli Stati Uniti. L’immagine mostra un gruppo di bambini afroamericani che attraversano la strada, scortati da una donna con il cartello “Stop”, mentre sullo sfondo si avvicina una volante della polizia. Il messaggio è diretto, senza margini d’ambiguità.
“Mi sono ispirato a una scena che ho visto con i miei occhi,” racconta. La moglie di Ware insegna in una scuola pubblica, ed è lì che l’artista ha incontrato la donna raffigurata. “Nella realtà, a volte deve sbattere il cartello sull’asfalto per far fermare le auto, che spesso tirano dritto. Una volta un bambino ha perso una gamba.” Quella non è solo una tragedia, per Ware, ma il segnale di qualcosa di più profondo. “Noi stiamo cancellando l’empatia”.
“Fiducia” è la parola che usa per descrivere il legame umano fondamentale — il tessuto stesso dell’umanità — che secondo lui si sta dissolvendo negli Stati Uniti, ma che ha ritrovato, almeno in parte, proprio a Barcellona. Con la moglie che insegna in una scuola frequentata in gran parte da bambini sudamericani, ha vissuto attraverso di lei l’ansia scatenata dalle politiche migratorie dell’era Trump e dalle espulsioni spettacolarizzate di persone senza documenti. “Tutto questo ti entra in casa, anche se sei solo un cretino che passa le giornate a disegnare fumetti,” dice, con la sua tipica ironia amara. “Fuori dalla porta succedono cose terribili”.
Per Ware, l’America di oggi ha smesso di essere quel “paese libero” dove si poteva sognare di restare adolescenti per sempre. Il clima politico ha lasciato un segno, anche sulla sua famiglia. “Questa mostra, per me, è stata una specie di terapia”.
Disegnare per raccontare — e per sopravvivere
All’ultimo piano del Cccb, nella sala Mirador, uno dei fumetti di Chris Ware scorre su un grande schermo. Raffigura un viale anonimo di una città americana. La gente cammina, mentre un supereroe precipita dal cielo. Qualcuno alza un attimo lo sguardo, poi tutto prosegue come se nulla fosse accaduto. Il messaggio è chiaro: il sogno è finito.
È una tavola tratta da Jimmy Corrigan, l’opera più nota di Ware. Il percorso espositivo si snoda in ordine cronologico al piano terra — un tempo seminterrato di un orfanotrofio. “Sottoterra”, sorride lui, “come i fumetti che leggevo da ragazzino”.
Curata da Jordi Costa, la mostra è la versione più completa di un progetto europeo nato anni fa ad Angoulême, passato per Parigi, Basilea, Pordenone, Haarlem e Lipsia, fino ad arrivare a Barcellona. A questa tappa si aggiungono nuovi materiali e videointerviste, tra cui una alla scrittrice Zadie Smith — “la più grande scrittrice vivente”, secondo Ware.
È normale andare a una mostra d’arte e non capirci niente, fa parte del gioco. Ma se leggi un fumetto e non lo capisci: l’idiota non sei tu, è l’artista.
Chris Ware
Fumetto, teoria e architettura
Dopo Jimmy Corrigan, ci si immerge in spazi dedicati a Rusty Brown, Building Stories e ad altre opere fondamentali, oltre a una sala che ricostruisce le origini del fumetto — un tema cruciale, perché Ware non è solo autore, ma anche studioso. Il suo modo di reinventare il mezzo nasce da un dialogo continuo con la sua storia. Le sue opere sembrano a volte sospese nel tempo, legate a un’epoca in cui il cinema non aveva ancora influenzato il linguaggio visivo dei fumetti. “Il cinema è il linguaggio visivo più potente che abbiamo,” dice. “Mia figlia, almeno due volte, mi ha detto che i suoi sogni finivano con i titoli di coda”.
In mostra c’è anche Histoire d’Albert, realizzato da Rodolphe Töpffer nel 1845 e considerato il primo fumetto della storia. Poco più in là, una tavola gigante di Krazy Kat di George Herriman, che Ware definisce “il più grande fumetto di sempre”.
Disegnare invece di scrivere
“Quando ero giovane, facevo come ti insegnano a scuola: pensi a una storia, scrivi inizio, sviluppo, fine, poi disegni. Ma alla fine tutto sembrava morto,” racconta. “Poi ho scoperto che, se iniziavo semplicemente a disegnare, senza pensarci troppo, la storia prendeva vita da sola.” Per lui, il disegno non è solo un mezzo: è il cuore stesso dell’atto creativo. È da qui che nasce il titolo della mostra: “Dibuixar és pensar”. Disegnare è pensare.
L’architettura — che Goethe definiva “musica congelata” — è centrale nel lavoro di Ware, che descrive il suo approccio come una scrittura fatta d’immagini. Questo è particolarmente evidente in Building Stories, lo straordinario “cofanetto a fumetti” inserito dal New York Times tra i dieci migliori libri del 2012. “L’architettura è fondamentale per me,” dice Ware, “perché è dove viviamo.” Ma è anche come pensiamo: gli edifici plasmano la memoria e il pensiero. I Romani lo sapevano già, quando inventarono il “palazzo della memoria”, un metodo per ricordare assegnando un’informazione a ogni stanza.
Il libro più difficile da classificare
In Building Stories, l’architettura diventa motore narrativo. Da sempre innamorato del libro come oggetto, Ware ha passato la carriera a sperimentare formati e a forzare i limiti dell’editoria tradizionale. Chip Kidd, il suo storico editore, ricorda quando i dirigenti di Random House lo convocarono per chiedergli: “Che cos’è questa cosa?” Al posto del classico volume, Ware proponeva una scatola con 14 elementi diversi: manifesti, giornali, fascicoli. “Una cosa che oggi nessuno pubblicherebbe,” scherza Kidd — e invece ha venduto oltre 100.000 copie. Il cuore dell’opera è un edificio a tre piani, dove le vite si intrecciano. Ware lo ha anche costruito in cartone, ed è esposto fisicamente nella mostra.
Ware ama i vecchi edifici molto più di quelli più recenti, mentre apprezza poco la rigida formalità di quelli più recenti. Questa casa di 3 piani in miniatura sembra una abitazione fuori dal tempo, sospeso tra epoche diverse — proprio come il lavoro di Ware. E come il fumetto, oggi. La mostra non è una celebrazione solo dell'opera di Chris Ware, ma di una intera forma d’arte la cui popolarità forse vacilla, ma che non ha perso nulla della sua magia. Il fumetto è nato “per far ridere”, ma è cresciuto: è diventato arte, letteratura, memoria. Anche se, ammette Ware con un sorriso, resta strano vederlo in un museo. “È normale andare a una mostra d’arte e non capirci niente, fa parte del gioco,” dice. “Ma se leggi un fumetto e non lo capisci,” aggiunge, “l’idiota non sei tu, è l’artista”.
Immagine di apertura: Chris Ware al Cccb di Barcellona. Foto Domus
