I loghi a vista, le etichette vistose, il costante martellamento della pubblicità: tutto diventa rumore, sovraccarico visivo: è la brand fatigue. Un affaticamento a cui risponde una nuova forma di resistenza al branding pervasivo. Su TikTok e Instagram nei video di "visual decluttering" le persone sfilano con calma le etichette dai barattoli di plastica, svuotano le bustine di ricarica in contenitori anonimi in vetro. Gli scaffali domestici diventano installazioni minimaliste: confezioni trasparenti, carta naturale, etichette assenti o fai-da-te.
Meno logo, più forma: l’ascesa del design senza marchio
Saturati dai loghi e dal rumore pubblicitario, i consumatori cercano silenzio visivo e autenticità: il “no logo” non è più una provocazione, ma una nuova forma di lusso quotidiano.
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- Lucia Antista
- 29 ottobre 2025
Il concetto di "brandless" o "no-name" non è nuovo: già negli anni Settanta, in Europa, catene come Carrefour avevano lanciato linee di prodotti generici in packaging bianco con scritta nera, come risposta alla crisi petrolifera e molti supermercati di lusso, come Erewhon, oggi vanno in questa direzione.
Il design industriale aveva avvertito tutti. Sempre in quegli anni Dieter Rams, con i suoi dieci principi del buon design formulati per Braun, aveva stabilito che "il buon design è discreto" e che "è il meno design possibile". I suoi elettrodomestici – dal rasoio ET44 al giradischi SK4, soprannominato "la bara di Biancaneve" per il coperchio trasparente in plexiglas – erano studi di sottrazione: forme pure, colori neutri, loghi ridotti al minimo indispensabile.
Ci ritroviamo immersi in un ambiente visivo saturo, in cui distinguere diventa impossibile e tutto si confonde in un'unica chiassosa texture commerciale. In questo caos, l'estetica quiet luxury trova sempre più consensi.
L'influenza di Rams sul design Apple è ben documentata: Jony Ive ha dichiarato più volte che i principi di Rams hanno guidato lo sviluppo dei prodotti Apple, dalla trasparenza del primo iMac alla semplicità monolitica dell'iPhone.
Al netto di qualche eccezione però il mercato contemporaneo per decenni ha fatto l'opposto. Uno studio del 2023, stimava che una persona media sia esposta a circa 33.000 messaggi pubblicitari al giorno, messaggi che di essenziale e “pulito” oramai hanno poco. Ci ritroviamo immersi in un ambiente visivo saturo, in cui distinguere diventa impossibile e tutto si confonde in un'unica chiassosa texture commerciale. Non importa il medium, la tivù come Tiktok, sembra costantemente di trovarsi al centro di Times square alla sera, persino sfogliando le prime pagine delle riviste.
In questo caos, l'estetica "quiet luxury" o "stealth wealth" trova sempre più consensi. Marchi come The Row, fondato dalle gemelle Olsen, o Lemaire eliminano loghi visibili, puntando su qualità dei materiali e su tagli più morbidi piuttosto che sulla riconoscibilità immediata. È un lusso che si nasconde, che rifiuta l'ostentazione proprio mentre la comunica a chi sa vedere. Anche i giganti del lusso hanno seguito questa tendenza: Bottega Veneta ha eliminato il proprio logo dalle collezioni, mentre Phoebe Philo ha costruito la sua estetica da Céline proprio sull'assenza di loghi evidenti.
C’è chi invece come Muji ha fatto fin da subito dell’essenzialità anti-brand la propria identità: prodotti in packaging marrone o trasparente, con etichette minimali, che enfatizzano la funzione piuttosto che l'immagine. Un mercato consistente anche se non privo di rischi.
Ne è un esempio Brandless, la startup americana fondata nel 2017 che proponeva articoli senza marca, tutti al prezzo di tre dollari, confezionati in un design sobrio e una semplice descrizione del contenuto. Nonostante il fallimento nel 2020 e il successivo rilancio nel 2022, l'esperimento aveva intercettato un desiderio reale: quello di consumare senza l'ingombro simbolico del brand.