Mary Quant, ovvero come la minigonna ha ridisegnato le nostre vite (1930-2023)

Si è spenta all'età di 93 anni Mary Quant, inventrice della minigonna e stilista capace di rivoluzionare un intero sistema di comunicare e consumare la gioventù.

Quant è stata tra le figure chiave di un’Inghilterra che si scopriva maliziosa e libertina, ma mai volgare. Quella della Swinging London che, dalla metà degli anni ’60, continua a nutrire il bagaglio iconografico di musica, moda, costume e design tutto. Figlia di insegnanti, studia arte alla Goldsmiths, dove incontra il futuro marito Alexander Plunket Greene: tanto povero quanto stiloso, istrionico e fondamentale per la carriera della stilista. Quando nel 1955, a 21 anni, lui eredita una somma di £5.000 la fortuna della coppia cambia repentinamente con la decisione di aprire un mutuo per una proprietà in Chelsea: nello scantinato apre l’Alexander’s Restaurant, al pian terreno Bazaar, la prima boutique di Mary.

Il nome di Mary Quant viene menzionato per la prima volta su Domus nel 1965, sulle pagine del numero 430

Prima, però, Quant passa per la formazione presso Erik in Mayfair. I soldi erano pochi e la futura stilista viveva su una dieta fatta di un biscotto al cioccolato al giorno. Come annotava iperbolicamente Cecil Beaton: “C’erano settimane in cui solamente un’aspirina toccava le labbra di Mary e, se non fosse stato per i Giamaicani della cucina del vicino [ristorante] Claridge che le passavano gli avanzi, avrebbe fatto la fame”.  Gli anni ’60 ne ripagheranno gli sforzi, consegnandola a fama internazionale grazie al suo capo più significativo: la minigonna. L’indumento scuote l’occidente, dove tutto diventa ‘mini’: dalle automobili (Quant stessa guidava una Mini nera dagli interni in pelle nera) e alle canzoni, come quella ‘Mini Mini Mini’ con cui Jacques Dutronc diventa idolo pop a Parigi. Nelle creazioni della stilista c’era tutta la volontà di aggiornare il lessico della moda femminile, rompendo con la tradizione couturiera che il New Look di Dior aveva imposto nella seconda metà dei Quaranta. Le silhouette e i pattern di Quant sintetizzavano la reclamazione del divertimento di una generazione intera, quella cresciuta nell’austerity del dopoguerra. 

La minigonna, di fatto, più che un'invenzione fu un'intuizione che è ciò che si richiede ai grandi designer e statisti. La capacità ovvero di interpretare i bisogni della popolazione. Quant colse una febbre nell’aria londinese e la trasformò in leggenda. Come racconta Nanda Vigo nella sua biografia “Giovani e Rivoluzionari” lei la minigonna la portava in Riviera francese già tra i ’40 e ’50, in uno spirito di liberazione balneare dei corpi seguito all’oppressione portata dal secondo conflitto mondiale. D’altronde Quant aveva aperto Bazaar, la sua boutique, già a metà Cinquanta, fondendo la sua ricerca su silhouette slim ed essenziali allo sportswear americano ed alla cultura Beatnik e Pop che si respirava negli Art College londinesi dell’epoca, vera fucina della Londra Swinging che sarebbe seguita. Chelsea Girl a lungo prima di Nico e Twiggy. Quant stessa diceva che era cresciuta “senza voler crescere, diventare adulti sembrava così terribile. I bambini erano liberi e sani”. Questa attitutudine spiega come fosse stato lo zeitgeist a dover inseguire la designer e non, come solitamente accade, viceversa. 

Sull’onda della filosofia di democratizzazione del design che permeava la cultura post-bellica, la stilista è stata tra le prime a firmare una linea di prodotti – dai cosmetici agli accessori come collant e calzature – che rendesse accessibile a più fasce sociali l’immaginario da lei creato. Il tutto unito da una potente quanto essenziale immagine coordinata: una margherita nera su sfondo bianco, figlio del modernismo e della Op Art, predecessore del flower power. Se la minigonna ha rappresentato uno spartiacque, altrettanto lo è stata l'immagine con cui Quant si presentava al pubblico. Un taglio a caschetto tanto essenziale quanto riconoscibile: proprio come le sue creazioni. Il demiurgo, il parrucchiere Vidal Sassoon, crea una rivoluzione nella rivoluzione con un hairstyle che vale come oggetto di design, tanta è armonioso nella sintesi dei volumi. Finirà, al pari della minigonna, per definizione un’intera generazione: dalla modella Peggy Moffitt – volto della moda Optical e musa di molti fotografi –, ad attrici come Elsa Martinelli e cantanti come Caterina Caselli. Il suo caschetto, scolpito dal salone milanese di Jill Vergottini, fu infatti fondamentale a decretarne il dirompente successo pop.

Mary Quant mostra i suoi stivali estivi alla fiera delle scarpe di Utrecht, foto Jack de Nijs per Anefo

Tanti sarebbero gli aneddoti sull’impatto che la minigonna ebbe sulla vita delle giovani occidentali. Dalle scolare che una volta uscite di casa o di classe si facevano un orlo con le spille da balia per scoprire il ginocchio, a Marina Ripa di Meana, arrestata per aver mostrato la coscia davanti a una gigantografia di Lenin da sotto un mini abito quando era in viaggio in Russia insieme al compagno, l’artista Franco Angeli. Risale, proprio al 1967, all’apice della Swinging London, la prima sfilata di Quant a Milano, con relativa presentazione della sua linea di cosmetici.  Il suo Bazaar su Kings Road – principale arteria di Chelsea – chiuse i battenti già nel 1969, dopo il successo internazionale e lasciando spazio, a non molti isolati di distanza, a un’altra incipiente rivoluzione del costume: quella di Vivienne Westwood. A questo punto Quant è già cristallizzata nella cultura popolare britannica. È del ’73 la prima retrospettiva a lei dedicata, al ’66 risale invece la sua prima onorificenza di OBE, a cui seguono quella di Dame nel 2015 e di Companion of Honor solo pochi mesi fa. Durante tutti i ’70 e gli ’80 il Giappone continuerà a esserne uno degli importatori principali, dando il la ad una serie di revival ciclici che mettono in luce la portata cross-generazionale dei suoi design. 

Immagine di apertura: sfilata Mary Quant, Milano, 1967. Courtesy Archivio Ragazzi di Strada