Akram Zaatari

Incontrato a Roma, l’artista libanese e co-fondatore dell’Arab Image Foundation racconta il suo lavoro sulle immagini per capire in che modo fanno parte della vita dell’uomo.

Akram Zaatari
Come in un romanzo popolare questa storia comincia con un: “Si dice, si racconta che” durante il conflitto tra Israele e Libano nel 1982 un giovane pilota nel sorvolare una cittadina abbia disubbidito all’ordine di bombardare una scuola avendola riconosciuta come un’architettura civile. La raccolta di frammenti, documenti, immagini, disegni, video, relativi a quell’evento diventano il materiale costitutivo di un film che ricostruisce un’archeologia della memoria.
Akram Zaatari
In apertura: ritratto di Akram Zaatari. Photo Marco Milan. Sopra: Vista della mostra "Akram Zaatari - The Archaeology of Rumour" alla British School at Rome (12 febbraio–4 marzo 2016). Photo © Giorgio Benni
Letter to a refusing pilot prende infatti spunto da una vicenda realmente accaduta a Saida in Libano, dove l’artista Akram Zaatari è nato: un evento quasi miracoloso, ancora nitido nell’immaginario della gente del posto come simbolo di un patrimonio collettivo che non viene raccontato nei libri di scuola o nei titoli di giornale ma che rimane potentemente sottotraccia. Parla di esperienze vissute in prima persona il libanese Akram Zaatari, di un tessuto di ricordi che fanno della storia individuale, marginale e periferica, il centro nevralgico della sua ricerca e la chiave per preservare uno sguardo di umanità e di contatto con il reale in un paese afflitto dalla guerra.
Akram Zaatari
Akram Zaatari, Letter to a refusing pilot 2013, video
C’è poi un’altra lettera nella mostra che la British School of Rome dedica all’artista libanese. Si tratta di una missiva seppellita a Ai nel Mir nel 1985, un borgo divenuto un avamposto dopo il ritiro delle truppe israeliane dalla zona e occupato da soldati del fronte di liberazione libanese. La lettera viene scritta e lasciata sotterrata nel giardino di una delle case che i combattenti avevano dovuto requisire ai civili e spiega attraverso le parole di uno dei miliziani le ragioni di quell’insediamento dando il bentornato ai proprietari alla fine della guerra nel 1991. L’opera video In this house ricostruisce dunque la storia e le motivazioni di un gesto che ancora una volta guarda un contesto di guerra non da una prospettiva ufficiale, ma attraverso la storia di singoli individui. Zaatari è una figura nodale della cultura libanese, intersecando i ruoli di fotografo, filmmaker archivista e curatore ha co-fondato a Beirut the Arab Image Foundation, istituzione che conserva immagini amatoriali e professionali relative a Medio Oriente e Nordafrica preservandone radici e identità e dove dal 1997 sono confluite già mezzo milione di foto.
Akram Zaatari
Akram Zaatari, Letter to a refusing pilot 2013, video

Beatrice Zamponi: Nel suo lavoro lei mette insieme ogni genere di frammento: fotografie, filmati, mappe, disegni. Possiamo dire che la sua volontà è quella di ricostruire una storia iconografica del suo paese?

Akram Zaatari: Raccolgo diversi tipi di documenti incluse testimonianze orali sia per riflettere sulla pratica stessa della registrazione e della rappresentazione sia sulla mia posizione nella storia. Non sono uno storico, ma molto di quello che faccio è scrivere di storia, di ciò che succede intorno a me e non in generale della storia del mio paese. Le nazioni, i diversi paesi, sono un’invenzione recente e probabilmente non sono delle entità finali.

Akram Zaatari
Akram Zaatari, Letter to a refusing pilot 2013, video

Beatrice Zamponi: Il video Letter to a refusing pilot innesca una riflessione immediata su quanto istruzione e conoscenza siano necessarie per creare tolleranza e comprensione dell’essere umano e per arrivare a compire scelte etiche anche in tempo di guerra. Grazie agli studi in architettura infatti il pilota riconosce nella scuola una costruzione civile e sceglie di non colpire il bersaglio.

Akram Zaatari: In guerra i veri perdenti sono i civili. Un conflitto finisce cambiando il paesaggio urbano, la demografia e il tessuto sociale delle città; il mio obiettivo era mettere l’accento sul ruolo degli individui nel dire no alla macchina della guerra. E qui arriva la parte emotiva del discorso, il legame con le nostre famiglie, la nostra storia e educazione che include i libri che abbiamo letto, i film che abbiamo guardato e gli esseri umani che desideriamo diventare. Ecco perché il mio film comincia con Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, opera che ha segnato un’intera generazione. Certamente il lavoro racconta la storia di un soldato che esce dal suo ruolo e diventa un civile decidendo di rimanere fedele a ciò che aveva imparato a scuola dove gli era stato spiegato che distruggere è molto facile che costruire e che ciò che necessita migliaia di anni per realizzare  strutture, consolidare legami sociali e tradizioni può essere annientato in una sola frazione di secondo. Non è spaventoso? La storia parla di preservare la nostra umanità, l’umanità condivisa, in tempi di guerra.

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Vista della mostra "Akram Zaatari - The Archaeology of Rumour" alla British School at Rome (12 febbraio–4 marzo 2016). Photo © Giorgio Benni

Beatrice Zamponi: La lettera è una delle sue tematiche ricorrenti. È un riferimento alla necessità di un rapporto e una comunicazione intima e diretta tra le persone?

Akram Zaatari: Una lettera è un modo per misurare una distanza. Siamo fortunati ad aver avuto lettere in copie fisiche cosicché è possibile tracciare la comunicazione tra le persone. Una lettera è una testimonianza di ciò che è stato detto e che oggi prenderebbe forma in una conversazione molto intima. Negli studi storici sono degli strumenti importantissimi. Quello che provo a fare nel mio lavoro è anche di produrre opere sotto forma di lettere vere e propie, facendo diventare la missiva stessa la tettonica del lavoro. L’ho fatto in diverse opere: Letter to Samir, Red Chewing Gum, Awada’s letters ecc.

Akram Zaatari
Vista della mostra "Akram Zaatari - The Archaeology of Rumour" alla British School at Rome (12 febbraio–4 marzo 2016). Photo © Giorgio Benni

Beatrice Zamponi: Lei utilizza molto la fotografia e il video, ma dice di non considerarsi un fotografo. Della fotografia – ha dichiarato – m’interessa la possibilità che offre di entrare in contatto con la soggettività degli altri. Ci spiega meglio?

Akram Zaatari: Sarei felice di considerarmi tale se allargassimo il concetto di chi sia effettivamente un fotografo. Io non sono interessato alla composizione o alla luce, ma a ciò che lega l’essere umano all’atto del registrare, alla storia e a una pratica di registrazione fotografica. Se espandiamo la definizione di fotografia includendo tutte le discipline che sono basate su una fotografia o sulla registrazione allora sono certamente un fotografo. Lavoro sulle immagini e provo a capire in che modo fanno parte della vita dell’uomo. Continuo a chiedermi cos’è una fotografia? Una domanda essenziale che ancora cerca una risposta. Non può certamente essere ridotta a carta, emulsione e particelle d’argento e non può nemmeno essere ridotta solo ad un contenuto estetico. Una fotografia è la più sintetica affermazione che possa essere fatta o con la quale si può vivere o che si può provare a capire.

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Vista della mostra "Akram Zaatari - The Archaeology of Rumour" alla British School at Rome (12 febbraio–4 marzo 2016). Photo © Giorgio Benni

Beatrice Zamponi: È interessante notare che lei si focalizza spesso su aree e luoghi decentrati, di provincia come Saida la sua città. Anche attraverso le scelte geografiche nelle sue opere sembra manifestarsi un interesse verso uno spazio a misura d’uomo, è così?

Akram Zaatari: La mia storia personale è chiaramente parte del lavoro ed essendo Saida la mia città è il posto che conosco meglio. Sono interessato alla periferia, non solo in termini geografici, ma come stato mentale. Non cerco storie che fanno notizia. Voglio parlare di un conflitto nel momento in cui le acque sono calme e a guardare i fatti da un angolo molto decentrato, quello più remoto e probabilmente il mio interesse per una cittadina dimenticata come Saida è anche radicato in queste ragioni.

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Akram Zaatari, Letter to a refusing pilot 2013, video

Beatrice Zamponi: Parlando del film In this house, come è venuto a conoscenza della storia di Ali, il soldato che ha scelto di scrivere e sotterrare la lettera?

Akram Zaatari: Cercavo documenti che persone della mia generazione potevano aver conservato del periodo dell’invasione di Israele nel 1982. Qualcuno mi aveva parlato di questo fotografo –oggi Ali Hashisho è un press photographer – che era stato nella resistenza libanese e attivamente coinvolto nel combattere l’occupazione israeliana del sud del Libano alla fine degli anni 80. Quindi reputai di volerlo incontrare, ero certo che avrebbe avuto storie per me e alla fine mi raccontò questa. Da quel momento mi misi in contatto con la famiglia seguendo una mappa che lui stesso aveva disegnato per me. Non ero certo di cosa avrei trovato, c’era una buona possibilità che nel frattempo qualcun altro avesse scavato il giardino, trovato e gettato via l’involucro senza neanche sapere che conteneva una lettera. Era conservata dentro l’astuccio di una munizione e negli anni 90 l’intera area ne era piena. Ho cominciato le ricerche e con il mio lavoro ho consegnato la lettera alla famiglia alla quale era desinata ed ho contribuito a scrivere una parte di storia di quella regione durante la guerra. Era un avvenimento totalmente tagliato fuori da qualsiasi documento di quel periodo. Il fatto in se è un dettaglio rispetto a ciò che consideriamo la storia ufficiale, ma è esattamente a questo che sono interessato, a dettagli, non a eventi eclatanti.

Beatrice Zamponi: Qui la guerra diventa il pretesto per un racconto di profonda umanità, il rispetto e l’amore di un soldato nei confronti di una casa che lo ospita e dei suoi proprietari. Cosa voleva mettere in risalto di questa vicenda?

Akram Zaatari: Certamente la storia è un esempio di persone che combattono con un etica, ma non era questo l’aspetto che m’interessava di più. Volevo aprire una sorta di capsula del tempo e consegnare la lettera. Spero di aver chiuso un capitolo nella vita di quest’uomo, Ali Hashisho, e nella storia di una famiglia. Ho realizzato il film quando gli Stati Uniti stavano invadendo l’Iraq e il mio interrogativo implicito era come le generazioni future avrebbero riflettuto su questa guerra.

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