Da Roma a Washington, la storia mai scritta di una farmacia di quartiere

In una tipica casa del sogno americano, ad Arlington, Andrea Bajani tenta di portare a termine la storia di una piccola farmacia di quartiere di Monteverde Vecchio, spazzata via dalla globalizzazione.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1069, giungo 2022.

Per alcuni mesi, quattro anni fa, ho lavorato a un romanzo il cui centro gravitazionale era una piccola farmacia di Roma. Si trattava di una bottega di quartiere, a Monteverde Vecchio, a gestione familiare. Poco più che una porta in legno e un’insegna, al piano terra di un edificio solido di inizio Novecento.

Era una storia di galenica e famiglie. Un giovane farmacista di paese, in Puglia, che poi realizza il suo sogno nella capitale. E poi due figlie che alla scomparsa del padre proseguono l’attività. Era una storia di medicine fatte in casa, con bilancini e con la sapienza di una tradizione prossima a sparire. E un’idea di comunità costruita sul mutuo aiuto, sull’idea del farmacista come via di mezzo tra il pronto soccorso, il parente e il medico di base: tonsille controllate ai bambini dietro il bancone, consigli spicci per la tosse, la pressione, e così via per generazioni.

Non so esattamente perché mi fossi incaponito a scrivere di quella farmacia. Credo c’entrasse la prossimità alla casa in cui ero stato bambino, e dunque la possibilità statistica che si fossero presi cura anche di me nei miei primi anni. E insieme credo giocasse un ruolo la mia ipocondria, che mi ha fatto sempre pensare alle farmacie come a luoghi in cui, in fondo, tutto poteva essere aggiustato, una sorta di ferramenta per esseri complessi. Sta di fatto che feci decine di ore di interviste, riempii quaderni di appunti. La storia non finiva bene, né nella realtà né nella mia traccia. Ma era piena di bellezza, anche se poi la farmacia soccombeva all’epoca presente, al monopolio delle industrie farmaceutiche e della disaffezione.

Le storie sono creature fortissime e fragili al contempo. Alcune possono resistere agli anni e alle intemperie, altre si sciolgono sotto il primo temporale e dopo non le trovi più.

Caricai la storia su un aero per gli Stati Uniti, dove ci stavamo trasferendo. Prima di partire mi chiedevo come avrei fatto a farla sopravvivere a quel viaggio, se avrei trovato un habitat adatto a farla crescere e diventare un libro. Le storie sono creature fortissime e fragili al contempo. Alcune possono resistere agli anni e alle intemperie, altre si sciolgono sotto il primo temporale e dopo non le trovi più. Per questo, il viaggio lo passai tutto trascrivendo al computer le decine di pagine di appunti. Tentavo, a 10.000 metri dal suolo, attraversando l’Atlantico, di costruire un incubatore di parole per quella farmacia, di salvarla almeno dentro la finzione. La casa di Arlington, Virginia, in cui passammo il resto dell’estate era piena di stanze e di tavoli per scrivere. 

Illustrazione Eva Gómez Serrano
Illustrazione Eva Gómez Serrano

Era su tre piani, la casa tipica del sogno americano: vialetto, veranda, vicini con la bandiera americana. Dentro, tutto legno: al piano sopra quattro camere da letto, al piano sotto una sala con pianoforte e caminetto, uno studio, una cucina. Nel seminterrato, lavatrice, asciugatrice, un’altra camera da letto e un’altra stanza ancora, metà magazzino e metà atelier. Vista da fuori, era una tra le altre, diverse e tutte uguali – a mattoni rossi quella in cui stavamo noi, altre solo in legno. Intorno, l’elegante labirinto suburbano fatto di canestri appesi al muro, scoiattoli in giardino, due o tre macchine per casa, e nessuno in giro notte e giorno. Con l’unica differenza – la sera – delle auto parcheggiate e le finestre illuminate. E la domenica mattina padri e figli a rubarsi la palla per poi buttarla nel canestro.

Non sarebbe stato difficile, in quella casa, trovare il posto giusto per lasciare che la storia di quella piccola farmacia romana attecchisse e crescesse rigogliosa. C’era silenzio tutto intorno, non avevo altre scadenze, ero felice, accudito e sfamato dalle persone che ci ospitavano. Non fu nemmeno difficile trovare il tavolo giusto, in veranda, protetto dalla zanzariera. La mattina presto mi portavo la tazza con il caffè, sedevo a un tavolo di marmo e sbrigavo un po’ di faccende rimaste in sospeso ormai da settimane. Corrispondenza pigra, soprattutto. C’era tutto quello che serviva, in buona sostanza, per sgomberare il campo dagli ostacoli che mi separavano dalla farmacia.
Il resto della giornata la passavo a scoprire quel mondo che mi si stava offrendo come futuro, anche se quello per Washington era solo un transito per poi finire in Texas. Ma era un fatto: ero attratto da tutto quello che era in movimento, il fascino per ciò che era in transito piuttosto che per quello che restava. Le autostrade, le macchine, e quel senso di temporaneità che vedevo dappertutto.

...ero attratto da tutto quello che era in movimento, il fascino per ciò che era in transito piuttosto che per quello che restava. Le autostrade, le macchine, e quel senso di temporaneità che vedevo dappertutto.

Seduto in veranda, il computer aperto e le mani alzate sopra, mi concentravo soprattutto sui dettagli delle case. L’aspetto di un edificio duraturo, e poi però la fragilità delle scale, della struttura, tutto pronto a cadere ed essere tirato su di nuovo. Non ho mai scritto la storia di quella piccola farmacia romana. Ho cercato in tutti i modi di averne cura, di salvarla dal mondo cui era stata condannata, ma non c’è stato verso. L’errore forse è stato illudermi che il terreno americano potesse essere buono per essere messo a coltura così. Con una storia da poco, di un’Italia degli anni Cinquanta che non c’è più, che non poteva sopravvivere a se stessa, spazzata via in verità proprio da quel tanto di America che abbiamo imparato a diventare e che chiamiamo globalizzazione.

Ogni tanto riapro il file. Cominciava con un farmacista di paese, e con una famiglia di duchi con ettari di terra tra Avellino e Bari. E poi il colpo di fulmine tra il farmacista e la futura moglie, grazie a una Cibalgina passata da una parte all’altra del bancone. Appartiene forse a quelle storie che un mattino se ne vanno, perché sono refrattarie a farsi costringere in parole. O forse aspetta soltanto il momento giusto per tornare. Io sono qui, non serve nemmeno bussare, queste parole sono la maniglia per entrare.

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