Le pensioni modeste, un surrogato di casa

Lo scrittore Andrea Bajani racconta di un piccolo albergo sulle colline vicentine, dove in occasione di una rassegna letteraria locale ha occupato per anni, una settimana alla volta, la stanza numero otto.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1068, maggio 2022.

Per molti anni la casa, quella in cui sono cresciuto, è stata per me il posto in cui più mi sentivo esposto ai pericoli. Non saprei dire quanto ne fossi consapevole allora, ma è un fatto che difficilmente mi toglievo le scarpe, pronto alla fuga. Se una tensione fosse degenerata, in un attimo sarei stato fuori di casa. Per questa ragione, gli alberghi sono stati a lungo il luogo in cui più mi sentivo al sicuro. Il fatto che ci fosse un filtro in ingresso, qualcuno che sorvegliava le chiavi, che smistava le telefonate, era sufficiente per farmi dormire tranquillo. Sapevo che oltrepassata la reception, infilate le scale, entravo in un’ambasciata di pace. 

Per questo, più che gli hotel di lusso ho sempre amato le pensioni modeste o i piccoli alberghi di provincia. L’architettura semplificata degli edifici – più spesso firmati dai geometri che dagli architetti – e persino l’arredamento di un anonimo un po’ casalingo, di recupero, mi sono di grande conforto. Non si può vivere senza casa, ne va della salute di anima e corpo. Le pensioni e i piccoli alberghi ne sono sempre stati, per me, dei surrogati. La decenza senza esibizione, la pulizia non pubblicitaria, o anche una lampadina riciclata, il ventilatore appoggiato sul tavolo: tutto questo mi ha sempre fatto pensare che c’erano delle persone che si prendevano cura di me, pur con tutti i loro limiti di esseri umani. 

Cercavo, credo, anche dei surrogati di genitori. Ho finito per scegliere un piccolo albergo sulle colline vicentine con la casualità delle cose che succedono. Un invito accettato, una piccola rassegna letteraria organizzata con pochi mezzi e molta cura, e poi questa palazzina a due piani dall’aspetto solido e tozzo in mezzo al paesaggio. 

Sette ore di treno e poi restavo lì, in mezzo al paesaggio, isolato, con la Giglia che diceva: “Andrea, la tua otto è pronta”.

L’ingresso erano due gradini a scendere per entrare, un tappeto e un divano in un angolo, con un misterioso mappamondo tanto incongruo quanto immaginifico. E poi un bancone con dietro la Giglia, la proprietaria dell’albergo, che agli sconosciuti passava le chiavi, mentre gli altri – gli habitué – si infilavano e staccavano il grosso pomello dal gancio da soli, che lei fosse o non fosse lì, e poi se ne andavano in camera a guardare la televisione.

Dentro quell’albergo, frequentato per lo più da operai o impiegati spediti a seguire cantieri in quella zona, per anni ho occupato la stanza numero otto. Era una camera al primo piano, subito a destra passate le scale. Un letto singolo contro la parete, accanto alla porta, un bagno cieco con aspiratore, un piccolo armadio in impiallacciato e un tavolino contro il muro su cui scrivevo testi d’occasione, che risolvevo in soggiorni mai più lunghi di una settimana. La finestra portava direttamente a una terrazzina con base in cemento, che guardava la valle fino a Vicenza – che s’intravedeva se non c’era foschia, se no bisogna inventarla. A poche centinaia di metri, torreggiava un traliccio, se non ricordo male, di Radio Maria. 

Illustrazione Roberta Ragona
Illustrazione Roberta Ragona

Perché ho finito per scegliere questo posto per le mie scritture brevi? In fondo si trattava di testi su commissione, articoli, recensioni, piccoli saggi, racconti per una delle tante antologie che non avrebbe letto nessuno. Avrei potuto scriverli dovunque: in biblioteca, in casa, persino in un bar. Eppure io facevo, per così dire, un viaggio, da Torino fin lì, due treni fino a Vicenza e poi uno strappo in macchina fino all’albergo, dove gli organizzatori di quella prima rassegna, diventati poi amici, mi depositavano e se ne tornavano a casa. Sette ore di treno e poi restavo lì, in mezzo al paesaggio, isolato, con la Giglia che diceva: “Andrea, la tua otto è pronta”. Salivo al primo piano, trasferivo i vestiti dalla valigia all’armadio, e poi mi mettevo a scrivere. Ogni tanto uscivo a camminare, la sera scendevo al ristorante a mangiare.

Ecco, io credo che quella frase – “Andrea, la tua otto è pronta” – fosse ragione sufficiente per fare quel viaggio, più ancora che le scritture, che venivano facili e al contempo non memorabili. Il letto, d’altra parte, era piccolo per il mio quasi metro e novanta. Non ero abituato a quelle dimensioni, non più, mi pareva di dormire su un cornicione, rivoltarsi equivaleva al rischio di finire sul pavimento. Il cellulare, per di più, non prendeva bene, e se non ricordo male non c’era il telefono in camera o nella otto non funzionava. Sta di fatto che, se mia moglie chiamava, arriva la Giglia a bussare, mi passava un cordless che mi portavo in camera e poi restituivo. 

Io facevo tutto quel viaggio perché la Giglia pensava che ci fosse un unico posto dove io potevo scrivere, e quel posto era la stanza numero otto.

Io facevo tutto quel viaggio perché la Giglia pensava che ci fosse un unico posto dove io potevo scrivere, e quel posto era la stanza numero otto. La preparava per tempo, faceva in modo che sulla terrazza ci fosse anche un ombrellone, se intanto fuori era arrivata la primavera. Al bancone, lei intanto era molto spesso china su romanzi, che commentava con me. Ogni tanto spariva, scendeva ad aiutare il nipote in cucina. La sera intravedevo il baluginio del televisore dalla stanza della colazione. In poltrona c’era la Giglia che guardava il telegiornale, io rileggevo quello che avevo scritto in giornata, m’infilavo nel mio letto da bambino e spegnavo la luce. 

Il venerdì l’albergo si svuotava, gli operai tornavano a casa, le stanze venivano pulite e le porte lasciate aperte con le chiavi infilate nella toppa. La domenica scendevo giù all’ora di pranzo, qualche volta mangiavo con lei sull’unica tavola apparecchiata. Poi ci sedevamo fuori a parlare, di fronte alle colline e al traliccio di Radio Maria. Quando me ne andavo, sapevo che negli anni a venire avrebbe cercato quei momenti – o quel luogo – nei miei libri futuri. Ma quei momenti restano lì, in mezzo al paesaggio, sono il romanzo più bello che non ho scritto.

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