Milano Design Week

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Jasper Morrison: “Mi sono mancati Milano e il Salone”

Alla Milano Design Week 2021 il grande designer britannico presenta una lampada da parete con Flos: un modo per scoprire il suo processo creativo, le sue impressioni sul Salone post-pandemia, il suo amore per Milano e per i maestri del passato, e trarne lezioni di vita.

Come trovi Milano?
Silenziosa. Sono atterrato da poco, mi sembra che le persone al bar siano più vivaci del solito, forse per la mancanza del solito caos.

Hai partecipato al Salone per decenni: come ci si sente a tornare dopo una pausa di due anni?
Questo è probabilmente il mio quarantesimo Salone. Ci vengo dal 1979 e in questi due anni di pausa sono rimasto sorpreso nel constatare quanto mi mancassero Milano e il Salone. È una sorta di punto di riferimento: hai questo evento che definisce davvero ciò che tutti hanno fatto o faranno. Stabilisce una nuova direzione, quindi sono molto contento di essere tornato. 

Come sono stati questi due anni?
Beh, abbiamo avuto molti meno progetti di quanti ne avremmo avuti normalmente - il che è stato una fortuna sotto un certo punto di vista - ed è stato bello lavorare su pochi progetti ma solidi, come l’Oplight per Flos, che abbiamo iniziato poco prima dei vari lockdown e di tutto ciò che è accaduto dopo. Per noi è stato fondamentale avere progetti su cui lavorare per percepire che il lavoro fosse ancora attivo, altrimenti avremmo solo potuto dire “bene, siamo in pensione”. Siamo riusciti a mantenere almeno una persona in studio per tutto il tempo, quindi è rimasto sempre attivo. Ci sono state molte cose buone, come i miei contributi scritti su Domus con Francesca Picchi: sarebbe stato molto difficile farlo in una situazione normale, mi ha davvero tenuto occupato e stimolato. Ho passato molto più tempo con i libri e la ricerca, un vero e proprio reset. 

In questo periodo abbiamo visto il mondo del design parlare con ancora più insistenza dei “cambiamenti radicali” e allo stesso tempo ricercare il passato, nel tentativo di trovare rifugio in questo nido sicuro di ciò che è già stato fatto. Dove ti collochi in questo momento, tra questi due atteggiamenti?
Ho sempre prestato molta attenzione al passato. Anche da studente guadagnavo qualche soldo in più vendendo libri d’arte e di design. Una parte molto importante della mia formazione era imparare a conoscere i maestri del passato o i soggetti del passato. Per esempio, una volta mi sono imbattuto in una libreria che aveva una bellissima edizione inglese di Franco Albini e a quel tempo non avevo assolutamente idea di chi fosse. C’erano circa 30 copie a cinquanta pence l’una, stiamo parlando del 1987 o 1988, e ne comprai dieci per il mio piccolo business, ma fu molto difficile per me venderle, così me li sono tenuti quasi tutti. Quel libro fu una scoperta fantastica perché potevo vedere che la mia sensibilità sul design era già presente in quel libro ed era stata sperimentata da un grande maestro. Mi ha rassicurato sul fatto che potevo continuare a seguire il mio percorso personale. Sai, quando ho iniziato la mia carriera in Inghilterra il design era una professione davvero sconosciuta. Certo, i designer c’erano, ma il grande pubblico non sapeva cosa fosse, e questo mi dava una sensazione di insicurezza. Trovare un libro come quello di Franco Albini è stato fondamentale per darmi la fiducia necessaria per continuare.

Lampada Oplight. Foto Jasper Morrison Studio
La lampada Oplight. Foto Jasper Morrison Studio

Un’eureka che ha aperto porte inaspettate.
Sì! Il mio primo eureka è stato una mostra su Eileen Gray nel 1978/1979. Un momento molto forte dove capivo profondamente quello che stava progettando. È stato molto incoraggiante.

Lo scenario del design britannico si è evoluto radicalmente da quando hai iniziato.
È migliorato molto, certamente attraverso i musei, le pubblicazioni, le riviste, il V&A, il Design Museum, il Blueprint dei vecchi tempi. E poi un sacco di riviste estere, Domus per esempio. Oggi la gente è più consapevole del design, e anche dell’architettura. 

Senti di avere un ruolo in tutto questo?
Non troppo. Penso di non essere molto conosciuto in Inghilterra. Non è mai successo di imbattermi in qualcuno che abbia detto “tu sei Jasper Morrison!”, mai. (ridendo)

Il che è un bene.
Il che è bello, sì, ti fa sentire a tuo agio. In Inghilterra trovo una mancanza di sensibilità visiva. Quando vengo a Milano vedo come le insegne dei negozi sono intelligentemente arretrate, guardi la strada e hai la stessa prospettiva di come era stata progettata essere quando è stata costruita. In Inghilterra vedi questi negozi orribili e le insegne che spuntano e non sai cosa c’è dietro. Una differenza davvero enorme. Non hanno mai capito che stavano facendo un errore. Tutte le città di provincia avevano un cosiddetto mercato centrale sostituito oggi da centri commerciali, e un sistema a senso unico per il traffico che ha effettivamente distrutto il cuore delle città in un colpo solo.

Lo studio londinese di Jasper Morrison. Foto Antonia Adomako
Lo studio londinese di Jasper Morrison. Foto Antonia Adomako

Tu sei qui per presentare Oplight per Flos: qual è la storia di questa lampada?
È stato un bel progetto, uno di quegli oggetti quotidiani che non vengono notati molto. La parte anti-glamour del mondo dell’illuminazione: la lampada da parete. Era così poco glamour che una volta Piero Gandini (ex CEO di Flos, ndr) mi ha risposto “non facciamo lampade da parete con Flos”. Il brief era davvero aperto, tranne per il fatto che doveva avere un pannello LED piatto. Con questo in mente mi sono passate davanti agli occhi tutte le applique che avevo visto o notato o memorizzato nel corso degli anni. Tutti questi ricordi hanno formato un’impressione generale di ciò che dovrebbe essere un’applique e con questa impressione ho cercato di estrarre la sintesi di una forma con un’espressione moderna. Il fatto di avere il piatto che tiene la luce e il supporto fissato al muro è un dettaglio molto tradizionale che ricorda gli anni ‘20 o ‘30

Osservando gli oggetti emergono ricordi imprevedibili. Come designer devi tenerlo a mente...

La forma è arrivata abbastanza velocemente: ovviamente non doveva sporgere troppo, ma considerando che l’illuminazione architettonica tende ad essere spesso troppo minimale e troppo spigolosa volevo qualcosa di più morbido. Poi c’è stato un fitto scambio tra noi e il dipartimento tecnico di Flos, e da quella conversazione sono emerse molte buone idee. Sono stati molto coraggiosi, viaggiando durante la pandemia: praticamente le uniche riunioni dal vivo che abbiamo avuto negli ultimi 18 mesi! Venendo alla testata superiore della lampada, è stata rialzata leggermente perché venisse percepita. Poi, attraverso un’ingegneria molto sofisticata si è ottenuto un effetto uniforme sulla parete. Ogni singolo LED ha il suo piccolo riflettore, in modo da dirigere correttamente la luce sul muro, dato che non volevo che fosse angolata in modo da invadere la stanza. Anche sulla testata abbiamo creato un dettaglio rifrangente per angolare al meglio luce.

Come si fa a immaginare una lampada nel suo insieme, in modo olistico, senza rischiare di isolare nella fase di progetto ogni singola parte (fonte di luce, paralume, forma e colore, temperatura, eccetera)?          
Non sono solo le cose ovvie come la funzione e la forma che bisogna tenere a mente, ma cose come l’atmosfera, il ricordo che si ha vedendola, che sia emotivo, nostalgico o in parte futuristico. Cosa dà alla stanza? Cosa dà a te? Bisogna porsi tutte queste domande che si possono scomporre a partire dalla propria esperienza quando si guarda un oggetto in una stanza, per esempio quando si aspetta qualcuno e si fissa una luce o una sedia, e si comincia a pensare “chissà perché l’hanno progettato così… mi ricorda un casinò di Las Vegas negli anni ‘70...”. Osservando gli oggetti emergono ricordi imprevedibili. Come designer devi tenerlo a mente in modo che le emozioni e l’atmosfera che l’oggetto restituisce siano positive e buone. Un buon oggetto non è fatto solo di funzione o forma, ma tutte queste altre cose che sono meno facili da evidenziare, ma molto importanti. 

Disegni, schizzi e prototipi della Oplight. Jasper Morrison. Foto Antonia Adomako.
Disegni, schizzi e prototipi della Oplight. Jasper Morrison. Foto Antonia Adomako.

Suppongo che questa sintesi su quello che dovrebbe essere il vero senso di un oggetto sia molto facile da fare dopo tutti questi anni di design.
È molto istintivo. Se prendi il lavoro dei maestri, vedi che è sempre stato lì. Una luce Albini porta in sé tutte queste cose. Rende il lavoro di progettazione molto più interessante che disegnare una forma e darla all’ingegnere. 

Il tuo design è influenzato da un ipotetico utente finale che tieni a mente? Chi è l’utente finale delle tue lampade?
Sono io. Devo soddisfare i miei bisogni e sperare che siano condivisi da altre persone. Penso che non si possa fare diversamente, davvero. Se si progetta pensando ad altri non si ottiene un vero risultato: sarebbe forzato o innaturale. Inoltre, noi ora vediamo questo nuovo prodotto finito, qui sulle pareti dello showroom, ma dobbiamo osservare cosa farà veramente dopo averlo installato in casa e osservato tutti i giorni per un anno, o forse più. Allora cominci a capire davvero se hai fatto un buon lavoro o se poteva essere migliore. Citando Enzo Mari: 40 anni per la rilevanza storica, un anno per la rilevanza pratica.

Hai teorizzato il Super Normal design, dove oggetti anonimi o quotidiani mostrano i loro “poteri” funzionali, emotivi ed estetici attraverso il tempo e l’uso: come ti rapporti, invece, all’art design e all’arte funzionale?
Beh, penso che sia un’attività molto separata. Probabilmente ho passato troppi anni a fare design in modo tradizionale, ma è nettamente diverso. Ha obiettivi diversi, il target è il collezionista e non l’individuo medio, ed è un percorso diverso. L’art design ti permette di fare le cose in modo più libero e può essere interessante trovare nuovi linguaggi o nuovi materiali, si tratta davvero di esplorare nuovi territori e nuove possibilità. Ma probabilmente non fa per me, quindi sono felice di rimanere sulla mia strada.

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