Salone del mobile e Fuorisalone 2019

Peep O-Rama. Ferruccio Laviani festeggia 25 anni di Emmemobili

Il lungo sodalizio tra il designer e l’azienda brianzola da “sbirciare” in 40 pezzi icona di artigianato italiano.

Guardarsi all’indietro e scoprire un catalogo sterminato, con pezzi che nella fretta di una successione infinita di novità avrebbero invece meritato una riscoperta. Ecco la ragione che ha spinto Ferruccio Laviani a organizzare durante il Fuorisalone 2018 un focus originale e divertente sull’eccellenza prodotta assieme a Emmemobili. D’altro canto si tratta di una collaborazione coraggiosa che ha ridefinito, oltre che la lavorazione del legno, anche i codici decorativi di due categorie imprescindibili nell’arredamento: il tavolo e la madia. Trasformati in pezzi scultura dal forte impatto scenografico. E soprattutto tattile. Una caratteristica di sensualità che ha spinto il designer a inserirli in un set burlesque deliziosamente rètro, come ci racconta in questa chiaccherata informale.

Come e in che occasione sei entrato in contatto con Emmemobili?
È cominciato tutto nel 1987. Erano noti come la sola un’azienda italiana che negli anni Cinquanta e Sessanta utilizzava una tecnologia per il compensato curvato. E come tale fornitore di punta per nomi importanti, da Cassina a Herman Miller. Ho avuto l’opportunità di incontrarli in occasione di alcuni prototipi che avevano realizzato per un mobile con parti curvate di Nathalie du Pasquier. Erano i tempi di Memphis, e come assistente di Michele De Lucchi mi ero recato nei loro laboratori di falegnameria a dargli una controllata. Siamo poi diventati amici quando gli ho chiesto di realizzare i mobili che avevo disegnato per lo studio di un avvocato amico di famiglia, in Brera. Oltre alla specializzazione del curvato producevano infatti anche piccole tirature. Il progetto dello studio non è mai stato realizzato, ma siccome nel frattempo mi ero messo in proprio, ogni volta che avevo bisogno di piccoli lavori di falegnameria mi rivolgevo a loro.

I mobili che realizzavano in piccole tirature erano già firmati Emmemobili?
No, la società che realizzava curvati si chiamava, e si chiama tuttora, Tagliabue Daniele. Il nome Emmemobili deriva da un’azienda che nel tempo avevano rilevato, e di cui erano stati a lungo fornitori. Inizialmente non sapevano cosa farsene, poi ho ricevuto l’invito a mettere le mani sul catalogo originale e pensare assieme a cosa conservare oppure modificare. Tanto per fare esercizio abbiamo cominciato a modernizzare alcuni pezzi e a introdurne altri utilizzando sempre il curvato. Il 1993 invece è l’anno in cui ho introdotto per la prima volta dei pezzi firmati da me. Il primo è stato il letto Rio, con un struttura curvata pulitissima che assieme ad altri progetti ha cominciato a vendere. Ma il vero punto di svolta è stato il tavolo Ufo del 1997. Un successo immediato e ancora oggi il loro best seller. E il pezzo da cui è iniziato la vera avventura Emmemobili. Con collezioni ragionate e presentate annualmente al pubblico.

È stato difficile coordinare questo passaggio ideativo e produttivo?
Si è discusso molto sulla strategia. La loro idea originale era di proseguire sul curvato e di allinearsi in modo carino con i trend di allora. La mia di puntare sulla forza di alcuni complementi di arredo specifici: il tavolo e la madia. E che fossero i più belli in circolazione. Senza rinunciare alla specializzazione nella lavorazione del legno. E così è stato fatto. Con tutta una serie di pezzi che in breve hanno trasformato l’azienda in un nome importante del design di ricerca. Partendo da zero. Senza dimenticare incursioni significative anche negli imbottiti, come il divano Dune – che ho usato per tredici anni nei concept dei negozi Dolce&Gabbana.

Img.20 "Peep O-Rama The Furniture Show", veduta della mostra, Metropol, Milano, 2018
"Peep O-Rama The Furniture Show", veduta della mostra, Metropol, Milano, 2018

Ma in totale quanti pezzi hai disegnato?
Dal 1994 a oggi ho calcolato circa 90 mobili. Tanti. Ed ecco perché è nata questa idea di presentarne una selezione al Fuorisalone. È vero che il Portico è stato recentemente sulla copertina di molte riviste, l’Ufo tutti se lo ricordano, l’Evolution pure, però ci sono tutta una serie di prodotti che la gente e gli addetti ai lavori si sono dimenticati. E che meritavano un loro show.

Dunque una retrospettiva, una celebrazione, un one-man show?
Io l’ho chiamata “Peep O-Rama The Furniture Show”. Cioè uno selezione di 40 pezzi circa da sbirciare come da una serratura. D’altronde era impensabile riempire il Metropol di viale Piave con tutto ciò che ho disegnato. Il pensiero tuttavia non è sorretto né da un atteggiamento nostalgico né commerciale, è solo la volontà di mostrare lo sforzo, enorme, gigantesco, di una produzione stratificata e unica. E proprio oggi che l’attenzione dei brand è tutta concentrata sulle novità. Diversamente da una volta quando i pezzi venivano ripresentati nelle fiere anche negli anni successivi.

Tanto per fare esercizio abbiamo cominciato a modernizzare alcuni pezzi e a introdurne altri utilizzando sempre il curvato.

Tra l’altro una decisione presa rapidamente, o sbaglio?
Ho cominciato a cullare l’idea di un evento ad-hoc a Gennaio, durante la presentazione in azienda delle nuove proposte. E proprio perché avevo desiderio di dare importanza ai prodotti storici. Successivamente, da una conversazione con Domenico Dolce a cui avevo espresso la voglia di mettere in piedi questo progetto, è nata invece la possibilità di usare come location il Metropol. Un posto che ho disegnato e che per me rappresenta un po’ casa. Rapidamente dunque forse no, ma nemmeno con calma.

Come hai strutturato lo spazio a livello scenografico?
Prima di tutto c’è da dire che questi mobili sono tutti molto sensuali, molti intriganti. Anche perché ho sempre cercato di lavorare sulle qualità fisiche e sensuali del legno: a volte lavorando con le tarsie, a volte coi colori, altre ancora con le sabbiature. Questa caratteristica carnale che ho ravvisato riguardandoli tutti è stata la traccia su cui ho cominciato a pensare la scenografia. Che ho tradotto ispirandomi ai peep show, gli spettacolini erotici in cui scostando una tenda si accede al proibito. Non sarà esattamente così ma le tende utilizzate per l’allestimento sono proprio quelle classiche da teatrino osé, rosse su fondo nero. A corredo di questo mondo ho recuperato dunque vecchie grafiche, cartellonistica d’antan, locandine e pin-up che abbiamo ingigantito per ottenere un’atmosfera rétro ironica e ammiccante. Fino ai classici cut-out dove infilare la testa ritratti fotografici in stile Ottocento. In sostanza un allestimento molto semplice, che facesse anche da base neutra a tutti i linguaggi che ho usato nel corso di vent’anni. Che sono stati molti e variegati. I primi pezzi sono chiaramente un retaggio del minimalismo di John Pawson e Claudio Silvestrin. Quelli successivi un tributo al glamour anni Settanta; dal 2000 compare l’influenza barocca di Dolce&Gabbana, con cui avevo iniziato a collaborare. Poi c’è stata la riscoperta del colore con l’Arlequin. Mentre con la struttura ad archi del Portico ho giocato con l’idea che abbiamo oggi della decorazione, qualcosa di che si lega all’estetica postmoderna. Tutto questo senza la minima intenzione di fare un’autocelebrazione, ma bensì una narrazione leggera che rappresentasse una pausa divertente nei percorsi del Fuorisalone.

Img.21 "Peep O-Rama The Furniture Show", veduta della mostra, Metropol, Milano, 2018
"Peep O-Rama The Furniture Show", veduta della mostra, Metropol, Milano, 2018

Sembra un po’ terapeutico tutto questo processo di sguardo all’indietro. È stato così?
Forse sì, anche. Una specie di analisi lo è stata, e senza rinnegare niente e nessuna fonte di ispirazione. Da Memphis che negli anni Ottanta mi ha inculcato una certa idea di colore e decorazione fino all’esperienza baracca mista all’oro con Dolce&Gabbana. Che mai avrei pensato entrasse a far parte del mio linguaggio.
Hai un pezzo preferito?
Quando si tratta di scegliere improvvisamente tutti i modelli ti piacciono e non riesci a essere lucido. Modular, per esempio, è un mobile che uso sempre e che si trova in tutte le mie casa. Anche i tavoli Jazz e Birignao sono tra i favoriti. Uno che adoro tanto è il Capri, un tavolo realizzato con una lastra di ceramica a basso spessore. Arlequin è certamente un pezzo importante perché è stato il momento in cui ho sentito nuovamente il bisogno di tornare al colore. Poi sai, su novanta è difficile restringere la scelta a uno solo, oppure a una manciata. Ci sono stati anni in cui ho disegnato anche dieci prodotti. Senza contare che molti di loro sono declinati in famiglie che comprendono diversi complementi in misure diverse.

Ho cominciato a cullare l’idea di un evento ad-hoc a Gennaio, durante la presentazione in azienda delle nuove proposte. E proprio perché avevo desiderio di dare importanza ai prodotti storici.

Possiamo dire che Emmemobili è stata dunque il tuo laboratorio di sperimentazione?
Per me è stato sempre importante il lavoro di ricerca fatto con loro. Hanno dei tempi diversi rispetto alle altre aziende per cui lavoro. Meno rapidi. D’altronde il legno è un materiale archetipo sostanzialmente immodificabile nella sua natura, uguale a com’era cinquecento anni fa. La sfida è sempre stata quella di raccontarlo in un modo inedito, cercando di lasciare a Emmemobili il compito di trovare il modo di spingere la tecnica oltre l’ovvio e il comune. Il nuovo mobile Dolly, per esempio, si ispira alle casseforti borchiate del Settecento. Ma il modo in cui queste sono state interpretate lo rende un pezzo straordinario. Come ogni altro di Emmemobili. Che non essendo prodotti commerciali sono il frutto di molto coraggio industriale e artigianale.

E giustamente sei molto orgoglioso di farne parte, no?
Sì, quando li vedo uscire dalla verniciatura è un momento di grande soddisfazione. Del resto la progettazione per Emmemobili è un processo che mantengo costantemente attivo, raccogliendo in una cartelletta annuale ispirazioni varie. Che arrivati Natale comincio a concretizzare in un concetto generale che poi discuto con loro. Per capire fattibilità di lavorazione e finiture. Quello che tuttavia rimane sempre sorprendente di questa piccola azienda, a metà tra grosso artigiano e piccola industria, è la caratteristica peculiare di essere sempre stata un apripista. Che ha proposto linguaggi e soluzioni decorative in anticipo di almeno quattro anni rispetto al mercato. Perché fortemente specializzata e in grado di mantenere un controllo totale sulla produzione. Ancora di più da quando anni fa ha portato internamente anche il processo di verniciatura.

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