La città non è paesaggio

Se vogliamo rispettare e conservare la natura non dobbiamo confonderla e mescolarla con la città.

La distruzione del paesaggio dovuta alla feroce invasione di città, insediamenti e infrastrutture prevalentemente destinate al traffico, ma anche di edifici isolati che proliferano esageratamente, ha assunto negli ultimi decenni una dimensione devastante. In Italia, per la costruzione si consuma attualmente una decina di metri quadrati di terreno al secondo. Il paesaggio naturale che amiamo e apprezziamo, e di cui abbiamo anche bisogno come fonte di nutrimento e svago, minaccia di essere annientato.

Ho scritto paesaggio naturale e sono stato inesatto. Quasi tutto il paesaggio europeo è forgiato, in una maniera o nell’altra, dall’uomo: dalle campagne composte da campi, strade e canali d'irrigazione sino ai boschi, sovente piantati o ripiantati artificialmente come la Foresta Nera. Persino gli alpeggi d’alta montagna sono stati creati nel corso del tempo dai contadini, dai pastori e dal loro bestiame. Sono paesaggi disegnati nei secoli, ma pur sempre pezzi di natura.

A essa le nostre architetture e le nostre città si contrappongono  nettamente: in quanto ambienti artificiali che offrono agli esseri umani riparo, vita comune e identità. Sono ambienti contro la natura, nella quale l’uomo, non protetto, non sopravviverebbe. L'antagonismo è incolmabile e non può essere eluso. Può, però, essere reso produttivo.

Se vogliamo rispettare e conservare la natura non dobbiamo confonderla e mescolarla con la città. La città deve rimanere un manufatto compatto, un dispositivo geometrico per la vita umana e sociale che coltivi e mantenga un contrasto chiaro con il paesaggio. Deve ritirarsi nella propria superficie, sviluppare margini netti, concentrarsi su se stessa, farsi densa, solida e dura come pietra. Questo suo apparire ostile alla natura è in verità il modo più sincero e più efficace per tributarle rispetto. 

Ovviamente la città non può e non deve essere un blocco di pietra o di cemento. La natura non ne va totalmente bandita: tuttavia la natura nella città non è più autentica, bensì un surrogato. Giardini e parchi non sono pezzi di paesaggio ritagliati nel tessuto urbano, che in quanto tali non sarebbero nemmeno in grado di sopravvivere, ma imitazioni artificiali e metafore poetiche di quel paesaggio che, insieme con gli edifici, essi stessi hanno contribuito a eliminare.

Il Central Park di New York può apparire come un frammento superstite della natura che occupava l'area di Manhattan prima che fosse edificata; in verità, è il risultato di una lunga, complessa e costosa trasformazione, che ha fatto di un terreno in parte paludoso e in parte roccioso una raffinata macchina ricreativa, sapientemente camuffata da natura selvaggia.

Gli squares, che dalla Londra del Settecento hanno conquistato le città europee con i loro giardini pittoreschi apparentemente selvatici, sono di fatto abilmente disegnati e amorevolmente mantenuti.

Gli alberi che fiancheggiano le nostre strade urbane non sono  frammenti di bosco, bensì elementi architettonici che spazialmente creano l'effetto di colonne e che richiedono un'irrigazione artificiale e una concimazione mirata come i vasi di fiori sulle nostre terrazze e sui davanzali delle nostre finestre. Giardinetti e aiuole sono soprattutto immagini che evocano prati e giardini che non esistono più.

Immagine di Johny Goerend

Anche le espressioni più informali della natura urbana sono artificiali: dai terrain vague usati come orti alla loro versione più aggressiva del guerrilla gardening, fino a quella più composta dell'urban gardening. E le facciate verdi e gli alberi sugli edifici urbani, anche se simbolicamente accattivanti, sono tours de force al limite della forzatura. 

Ciò che fa parte della città, pietra o verde che sia, viene comunque sottratto alla natura e va limitato al massimo. Per costruire oggi una città che sia il meno invasiva possibile, mantenendo una qualità di vita più alta possibile, è necessario ripensare la disciplina del progetto urbano. La crisi in cui l'urbanistica ha intrappolato se stessa nel momento in cui ha creduto di poter abbandonare la progettazione tridimensionale e spaziale a favore dell'astrazione bidimensionale, e doversi ridefinire come pianificazione urbana, ha portato, al più tardi negli anni Settanta del secolo scorso, alla sua marginalizzazione. Nel vuoto aperto da questa sconsiderata smobilitazione sono subentrate prima l'architettura e poi, con forza maggiore, l'architettura del paesaggio. D'un tratto furono i paesaggisti a disegnare non soltanto parchi e giardini, ma anche strade e piazze, lungomari e cortili. Il moderno revival del paesaggio urbano del Dopoguerra, recentemente riproposto dal landscape urbanism con risvolti populistici, minaccia proprio quella densità squisitamente urbana cui ormai quasi ovunque si aspira.

I nuovi urbanisti dovranno collaborare con gli architetti e con i paesaggisti (oltre che con gli ingegneri, con i pianificatori del traffico, i sociologi e gli economisti), ma in quanto rappresentanti autonomi di una disciplina autonoma. Dovranno agire come progettisti e inventori, ma prima ancora come ricercatori e studiosi. 

L'urbanistica non è tanto colpo di genio, quanto paziente costruzione su fondamenta in parte esistenti e in parte ancora da creare, le fondamenta del disegno urbano come si è evoluto nella storia della città. Perché, in fin dei conti, questo dovranno fare, come prima e più che mai, i nuovi progettisti urbani, le nuove progettiste urbane: disegnare città, parti di città, elementi di città, frammenti di città. Sono gli unici in grado di farlo. Sono gli unici che dispongono delle competenze per fondere in una configurazione fisica concreta le moltitudini di informazioni, bisogni, desideri e aspirazioni riguardo alla città. Questa configurazione fisica, cioè la forma della città, deve rispecchiare e indirizzare la vita dell'uomo, rendendola sicura, produttiva, sociale, creativa e gioiosa. Per quanto riguarda la natura circostante, la città non la deve integrare o addirittura inglobare. La deve soltanto lasciare il più possibile in pace.

Vittorio Magnago Lampugnani (Roma, 1951) ha insegnato Storia della progettazione della città presso il Politecnico di Zurigo dal 1994 al 2017. Ha studi di architettura a Milano e Zurigo. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Bedeutsame Belanglosigkeiten, Verlag Klaus Wagenbach, Berlino 2019.

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